martedì 2 novembre 2010

L'ora dei Tea Party, recensione di Mario Secomandi

A cavallo delle elezioni di mid-term negli Stati Uniti, si rivela degna di nota la disamina del fenomeno politico venuto alla ribalta già da molti mesi, ossia l'irrompere del movimento popolare dei Tea Party. Prendendo il nome dalla rivolta sulla cui scia le colonie britanniche dell'America Settentrionale, a fine 1700, ottennero l'indipendenza dalla Corona, i Tea Party sembrano rappresentare, in questo momento, il più consistente segno di speranza per il rinnovamento della politica americana. E' un movimento nato realmente «dal basso», dalla gente. Moltissime persone hanno cominciato, dopo la vittoria elettorale di Obama, a riunirsi attorno a cenacoli culturali, ed hanno dato vita a raduni e manifestazioni di massa per il cui tramite esprimere la propria contrarietà alla linea politica portata avanti dal nuovo presidente federale.

I Tea Party sono dunque la nuova espressione della «Right Nation» statunitense, perché incarnano l'anima più genuina e profonda del conservatorismo sociale e popolare americano, volendo coniugare a livello culturale e politico i valori del liberalismo con quelli del cristianesimo. Al centro della loro proposta politica c'è la difesa dei principi stessi che stanno alla base della Costituzione americana, come quelli di uno Stato che non sia un moloch che tutto dall'alto pianifica, dirige e controlla, ma che garantisca la sicurezza e la libertà dei cittadini e si ponga sempre al servizio di questi. Da qui la richiesta di un abbassamento del carico fiscale in modo da dare agli individui, alle famiglie ed alle imprese l'ossigeno vitale per poter operare. Occorre poi - sostengono ancora gli esponenti di questo movimento - per dare un senso e contenuto positivo alle libertà, fare riferimento ai valori insieme laici e cristiani della difesa della vita dal concepimento, della promozione della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, della ricerca scientifica e bioetica che non utilizzi gli embrioni umani come cavie di un progresso tecnico senza limiti morali ed etici. Rilevante è infine la difesa della civiltà occidentale dalle minacce ed assalti del terrorismo internazionale islamista.

Appoggiando uomini politici in auge come Ron e Rand Paul, Newt Gingrich e Dick Armey, i Tea Party possono nondimeno spiccare il volo e passare dalla fase movimentista all'era politico-istituzionale, sostenendo in maniera compiuta, anche in vista delle future elezioni presidenziali del 2012, l'ex governatrice dell'Alaska nonché ex candidata alla vicepresidenza federale Sarah Palin. E' opportuno ricordare, a questo proposito, che, se c'è un demerito nella sconfitta dei Repubblicani alle scorse elezioni presidenziali, questo va imputato non alla Palin ma piuttosto al non così accentuato appeal comunicativo di John McCain ed alla sua tendenza a smarcarsi troppo dalla piattaforma politica di George W. Bush e dall'eredità dei suoi otto anni di governo. Inoltre - dato da non sottovalutare - la Palin sa far fronte con disinvoltura alle critiche personali ed ideologiche mossegli dall'establishment liberal e radical-chic che influenza molti dei centri di potere forti d'oltreoceano. Palin è in grado di incarnare molto bene l'anima della destra americana ed è forte della sua preziosa esperienza di governo istituzionale in Alaska.

Insomma, se il Partito Repubblicano vuole riemergere dalla crisi in cui è piombato contestualmente alla sconfitta di McCain, non può che incontrarsi con il grande movimento conservatore liberale, sociale, popolare e cristiano, rappresentato oggi soprattutto dai Tea Party. La storia politica statunitense ha a più riprese dimostrato che il Grand Old Party vince ed ha successo se non si accontenta e va oltre l'approccio moderato, istituzionale, attendista, che pretende e s'illude di poter vivere di rendita ed adagiarsi sugli allori. Così era accaduto con Ronald Reagan e con George W. Bush, uomini che hanno inciso e sono passati alla storia. Questo è ciò che serve per arginare la deriva politico-culturale che gli Stati Uniti stanno imboccando con Obama.

http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/201011023539/usa/diario-di-una-rivolta-americana.html



Da Obama al Tea party: l’America che vota (di Matteo Sacchi)

In Usa siamo in zona di Midterm elections. E, comunque vada a finire il partito democratico che con la vittoria di Obama sembrava aver imbroccato un vento favorevole di lunga durata si è invece trovato ad affrontare a sorpresa un difficile match race. Da un lato l’ascesa del «presidente dei sogni» si è dovuta scontrare con la dura realtà, dall’altro dalle ceneri di un partito repubblicano in crisi è nata una fenice molto più agile e snella che ha pescato a man bassa tra i ceti popular: il Tea Party. Per capire perché la macchina da guerra dello «Yes, we can» si sia inceppata ci sono due libri brevi brevi ma di grande aiuto.
Il primo è Obama, l’irresistibile ascesa di un’illusione a firma di Martino Cervo e Mattia Ferraresi (Rubettino, pagg. 120, euro 10, prefazione di Giuliano Ferrara). Il secondo è L’ora dei “Tea Party” di Marco Respinti (Solfanelli, pagg. 160, euro 12). Il merito di Cervo (capo redattore di Libero) e Ferraresi (corrispondente da Washington del Foglio) è quello di aver colto nel loro libro il ruolo messianico che Obama ha finito per incarnare agli occhi della maggioranza degli americani. La sua arma vincente è stata la capacità di creare un sincretismo «simbolico-religioso» che lo ha trasformato in una sorta di redentore laico, un’icona degna delle fantasie di Gioacchino da Fiore. Vi sembra un’esagerazione? Magari lo è, ma il duo Cervo-Ferraresi la argomenta bene, utilizzando gli stessi discorsi di Obama: «È in quelle strade, in quei sobborghi che ho sentito per la prima volta lo spirito di Dio che si rivolgeva a me. È lì che mi sono sentito chiamato a un compito più alto...» (Discorso al National Prayer Breakfast, 5/2/2009). Insomma per usare le parole di Giuliano Ferrara: «Una antica tentazione di religione civile si manifesta in Obama... è ciò che la gente sopra tutto chiede o sembra chiedere nel nostro tempo credulone senza fede».
E se questa tentazione sincretica è comunque parte del sogno americano, Marco Respinti - giornalista e Senior Fellow del Russell Kirk Center - racconta invece la rivolta della concretezza del “Tea Party”. Perché anche la concretezza e l’ideale libertario, l’odio verso il pubblico e la tassazione sono miti americani fondanti. E qualcuno li sta riscoprendo. Il suo libro è nato riunendo e riorganizzando molti degli articoli che ha scritto per diverse testate italiane: leggendo questo “patchwork” (del resto è la coperta preferita delle massaie a stelle e strisce) si capisce come lo spirito di rivolta fiscale che caratterizzò la nascita degli Stati uniti sia ancora ben vivo. Ecco perché cenacoli informali, composti da poche decine di persone, sono riusciti a trasformarsi in un movimento che contesta Obama dal basso. Un movimento che potrebbe riuscire a scatenare la tempesta perfetta per abbattere il piedistallo su cui è issato il presidente-Nobel.

Matteo Sacchi

http://www.ilgiornale.it/cultura/da_obama_tea_party_lamerica_che_vota/02-11-2010/articolo-id=484161-page=0-comments=1

lunedì 1 novembre 2010

È scoccata “L’ora dei Tea Party” (la Discussione, 31/10-1/11/2010)

Negli Stati Uniti d’America monta la delusione per il “cambiamento” promesso e mai concretizzato dal presidente Barack Hussein Obama.
Il 19 febbraio 2009 il malcontento si è incanalato in una rivolta popolare e piuttosto trasversale di natura fiscale, i “Tea Party”: un richiamo alla storia e alle tradizioni politiche del Paese, un appello allo “spirito del 1776” e al conservatorismo costituzionale, una formula felice e accattivante.
Come racconta Marco Respinti in “L’ora dei Tea Party”, edito da Solfanelli, negli States il fenomeno sta crescendo e si sta moltiplicando: Tea Party sono cenacoli informali, riunioni di poche decine di persone oppure raduni con migliaia di partecipanti, alcuni famosi, per la maggior parte cittadini comuni. Gridano alla politica che la misura della sopportazione è oramai colma, che nessuno ha più voglia di pagare i costi e i danni prodotti da altri, soprattutto dallo Stato. La crisi finanziaria ha innescato la miccia e oggi continua ad alimentare la protesta. Ma i “Tea party” sono molto più della pur dura e doverosa contestazione dell’Amministrazione Obama e delle sue politiche liberal. Sono il modo in cui sta prendendo vita, nuova vita, il movimento conservatore grassroots, cioè popolare ma non populista, dopo la sconfitta subita dal Partito Repubblicano alle elezioni del 2008.

la Discussione
domenica/lunedì
31 ottobre/1 novembre 2010
p. 7

venerdì 29 ottobre 2010

Qui a Washington ho capito una cosa: il Tea Party è una vera rivoluzione

Washington, D.C. – Gli Stati Uniti d’America, quelli veri, non abitano qui, non certo nella capitale federale. Sì, Washington è una cittadina per diversi aspetti gradevole, assai meno tentacolare di una New York, ma è pur sempre il collo dell’imbuto dove si concentrano le strutture del potere federale che hanno alienato milioni e milioni di americani. Quei milioni che popolano un continente intero, lontani dalle dinamiche ciniche della “stanza dei bottoni”, distanti dalle logiche logoranti di un mondo politico sempre più autoreferenziale.

Rincaso insomma un po’ perplesso nel sorprendermi a passeggiare per le vie dei quartieri residenziali di Washington con due pacchi di linguine Barilla sotto il braccio e un rigoglioso cespo di prezzemolo nella sportina. Stasera abbiamo ospiti importanti per un dinner party politico-culturale e all’ultimo momento la dispensa ci si è rivoltata contro. Ecco allora che l’edificio di mattoni rossi in stile vittoriano dove ancora ha sede uno dei quattro mercati di cui un tempo era ricca la capitale federale degli Stati Uniti, l’Eastern Market che sorge al civico 225 della 7a strada in direzione nordest, viene in salutare soccorso. La mia perplessità, oggi, è dovuta al fatto che mai avrei pensato di potermi trovare un dì a far spesa fra la bancarella del pizzicagnolo e il banco del pesce nel Distretto di Columbia dove sono di rigore giacca e cravatta sempre, dove time is money, dove tutto è lobby. Sono però contento. Anche Washington getta finalmente la maschera del grigio burocratismo e si scopre umana, in questo tardo meriggio di sole calante sulle cime di aceri vestiti di foglie di un bel giallo caldo mentre la fragranza di una arietta crispy viene dolcemente sostituendo la temperatura mite, roba da pranzare ancora in giardino in maniche di camicia, che ci ha avvolti con simpatia per tutta la giornata. Rinconciliante. Washington non sarà certo la Smalltown America dove il cuore della gente pulsa davvero, ma pare che non tutto sia perduto.

La domenica, alla Messa delle 9,00 celebrata in rito tridentino nella parrocchia di St. Mary, Mother of God, a un passo da Union Station, vedi inginocchiato tra i banchi Thomas Bethell (e signora, Donna), il talentuoso saggista di mille e un best-seller (in italiano vedi Le balle di Newton. Tutta la verità sulle bugie della scienza, a cura di Guglielmo Piombini, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2007, e nel rinfresco seguente scambi quattro chiacchiere, fra un donut e l’altro, con il fuoriclasse Patrick J. Buchanan, pensa te che compirà 72 anni proprio il giorno delle elezioni di medio termine, l’abito scuro non gli fa una grinza, il messalino sotto braccio gli dona. Il pensiero va subito a Joseph Sobran. Scrittore di gran talento, giornalista di molti meriti, campione di quella Old Right più intransigente che da sempre qui mischia le sorti con il cattolicesimo più integrale, uomo di polemica vera, antineoconservatore fervido, talvolte sopra le righe, ma-chi-non-lo-è?, ebbe la ventura di definirsi “teo-anarchico”. Il 30 settembre se n’è andato a 64 anni, lasciando una voragine. Mancherai a tutti, Joe.

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Sì, Washington non è la Heartland America, la terra dove batte il cuore del popolo: basta del resto fare un saltino fuori porta, per esempio a Vienna o a McLean in Virginia, a tiro di underground dalla capitale, per scoprire tutto un altro mondo, distante anni-luce anche se in realtà poche miglia dai palazzi ingessati del potere altrettanto ingessato di qui. Neanche quando governano i Repubblicani, Washington è l’emblema vero del Red State, là dove dominano incontrastati i conservatori. Eppure questa città originale e al contempo strana, un attimo affascinante e quello subito dopo scostante, qualcosa di sincero da dire ce l’ha, lo conserva. Non tutto è minuetto tattico.

Fra una manciatina di giorni qui negli Stati Uniti sarà la resa dei conti. Gli americani andranno alle urne, la lunga marcia della protesta montata nel corso di due anni interminabili e rapidi contro la Casa Bianca arriverà al dunque, certamente le elezioni consegneranno al nuovo Congresso eletto un mandato forte e chiaro: Barack Hussein Obama go home!

Si sente, si vede, si percepisce. È nell’aria. Su qualche paraurti scorgo gli adesivi di ieri, “Obama 2008”: ma sono vecchi, consunti, sbiaditi. Stanno ancora lì perché non si riesce a levarli senza far danno, quel fastidioso frammisto di carta strappata e collante residuale. Un numero enorme di americani si è pentito presto di esserseli appiccicati sull’auto, in così troppa bella vista.

La Camera dei deputati, relata refero, andrà ai Repubblicani, qui ci giurano tutti. Al Senato invece la partita è durissima. Ma aperta. Molti commentatori fini che incontro a pranzo, cena, colazione e merenda sostengono che diversi seggi sono ancora sul serio aperti. Difficile spuntarla, sicuro, ma let’s cross fingers. Una cosa è certa. Gl’indecisi, numerosi, registrati dai vari sondaggi, resteranno tali anche il 2 novembre, cioè non voteranno. Amen. Al Senato i Democratici dovrebbero quasi certamente trarne vittorioso vantaggio, a meno che non li scalzino elettori nuovi, gente cioè che non ha votato in elezioni precedenti per disgusto e insoddisfazione ma che ora potrebbe invece fare la differenza a destra. Obama trionfò nel 2008 erodendo pochisimi voti a destra: liberò infatti energie prima inutilizzate a sinistra. Toccherà adesso alla Destra? Succederà ai conservatori, oggi che l’offerta politica è allettante come non mai per quei comparti del conservatorismo di popolo che fino a ora se ne sono restati a casa? Il movimento dei “Tea Party” sta infatti offrendo una chance mai vista prima a chi da tempo chiede Destra e dal Partito Repubblicano riceve invece regolarmente picche. Se vincerà la propria inveterata allergia verso le urne, basata sul disprezzo dell’idea che la politica sia fatta solo di elezioni (certo che non lo è, ma in casi come quello attuale le urne divengono ottimi strumenti di affermazione), quell’enorme popolo di non-votanti potrebbe trasformarsi in un’arma imbattibile. Impossibile prevederlo, dicono certi naviganti osservatori della politica che incontro qui a Washington e che mi pregano discrezione sui loro nomi. Tutto è davvero ancora possibile.

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Che tutto sia davvero ancora realmente possibile lo sta del resto gridando ai quattro venti da settimane lo Stato del Nevada. L’ennesima donna con la gonna schierata dalla Destra grassroots, Sharron Elaine Ott Angle, classe 1949, già deputata Repubblicana all’Assemblea (la “Camera bassa”) del Nevada dal 1999 al 2007, ha le carte in regola per battare Harry Mason Reid. E la cosa non è da poco, visto che Reid è l’attuale leader della maggioranza Democratica al Senato. Dal mese di aprile appoggiano apertamente la Angle i miltanti del “Tea Party Express”, il gruppo californiano che gira il Paese su un bus a sostegno dei canditi conservatori; il popolarissimo commentatore radiofonico Mark Reed Levin, veterano dell’Amministrazione retta da Ronald W. Reagan (1911-2004) e firma di National Review; il Club for Growth di Washington, quintessenza della rivolta fiscale conservatrice, noto per essersi inventato il “RINO Watch”, vale a dire l’osservatorio che tiene per la gola i Repubblicani traditori; Phyllis Schlafly dell’Eagle Forum, la “femminista” dell’antifemminismo storico statunitense; e Joe l’idraulico dell’Ohio, cioè Samuel Joseph Wurzelbacher, nato nel 1973, che si guadagnò la ribalta nazionale durante la campagna per le presidenziali del 2008 mettendo nell’angolo Obama e le sue inonsistenti proposte politiche a tutela delle piccole e piccolissime imprese nazionali. La Angle ha avuto per settimane un vantaggio enorme, dicevano i sondaggi, su Reid; ora Reid ha riguadagnato parecchio terreno, ma lei è ancora in testa. Se i “Tea Party” dovessero portare i conservatori a guadagnare non solo la “facile” Camera ma pure il “difficile” Senato, tutto potrebbe davvero iniziare dall’America virtuosa di provincia del Nevada.

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Perché per la sfida all’O.K. Corral del Senato le sorprese, quotidiane, davvero non mancano. Mentre le Sinistre si sono riempiono la bocca di equazioni sciocche fra “Tea Party” e razzismo, mentre i media persistono nel giocare sporco sul fatto che criticare Obama significa criticare i neri, mentre i Democratici proseguono la retorica melensa sulle “minoranze”, ecco che alla vigllia delle elezioni spunta un gruppo nuovo, Latinos por la Reforma alias Latinos for Reform. Sono ispanofoni, sono immigrati (legali), sono conservatori. Hanno sede a Madison, in Virginia. Martedì 19 ottobre hanno bucato il video con spot elettorali che nessuno si aspettava, ma che la dicono assai lunga sul clima politico attuale. Ai propri compagni di “minoranza perseguitata” urlano infatti chiaro e tondo “Non votate!”. Ci avevano promesso, dicono, “il cambiamento” e “la riforma delle leggi sull’immigrazione”, ma dopo due lunghi anni di spadroneggiamento Obama e i suoi non hanno mosso nemmeno un dito. Il presidente e i suoi Democratici ci hanno – lo dicono proprio così – traditi. E adesso pensano di tornare a chiederci i voti. Nisba. Se continueremo a votarli come se nulla fosse, continueranno a prenderci per il naso. Astenetevi, dicono. Intelligenti, glossiamo. Basta con la strumentalizzazione. Caspita. Vediamo se i Democrtaici privi degli ascari delle “minoranze” ce la fanno a battere i Repubblicani impalmati dai “Tea Party”. Il pensiero, il sogno corre ancora e sempre al Senato, oltre che alla Camera.

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Qui a Washington la percezione comune è che l’onda dei “Tea Party” sia oggi il fenomeno più colossale e significativo della vita politica statunitense degli ultimi decenni. Niente di simile – si dice – si vedeva dai tempi di quella enorme mobilitazione che, sospinta dai leader dell’allora detta New Right, portò Reagan alla Casa Bianca. Niente di analogo – si spingono addirittura più in là a dire altri – si vedeva da che il conservatorismo, dal mondo (nobilissimo) delle idee (anni 1950), scese in pianura (anni 1960), trasformandosi in un movimento enorme di giovani e veterani, intellettuali e attivisti, sigle, organizzazioni, fondazioni, ed efficacemente fu capace di condizionare a sé, durevolmente, parte grande della politica nazionale, anzi di spostare persino l’orientamento interno di un intero partito, quello Repubblicano, attorno alla figura catalizzatrice del senatore dell’Arizona Barry M. Goldwater (1909-1998). Sono contento. La pensavo così, l’ho scritto, l’ho ribadito, ma il sospetto che si trattasse della percezione viziata di un osservatore lontano ed esterno, maturata solo su studio e letture, è sempre stato presente. Qui a Washington invece trovo conferma viva, autorevole. La pensano così i conservatori, dai veterani della politica agl’intellettuali, dai giovani attivisti ai businessmen.

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In questa capitale particolare, che assieme è centro e provincia, la bruttezza oggettiva di certi edifici viene consolata dalla compostezza di quella di altri, affettamente neoclassici, colonne greche a sfare, frontoni, timpani, e chi più ne ha più ne metta. Nostalgia di un passato buono per il futuro. L’amore per il bello qui è diffuso tanto quanto il culto del brutto. Menomale. Almeno non impera solo il secondo. C’è gente, qui, che crede che il bello esista, ancora; che sia reale e concreto; e che sia oggettivo, insegnabile, trasmissibile. Amano per esempio il Roger Scruton di Beauty (Continuum, Londra 2010). Trovo addirittura un vecchio volpone della politica che è luterano (niente nomi, intesi) e che ama le Messe cattoliche anche per la loro rotondità liturgica, estetica; e poi un episcopaliano che la sa lunga sul mondo della crudezza politica il quale si lamenta vistosamente della protestantizazzione di certe chiese cattoliche brutte. Non pensate alla forzatura se dico che tutto questo ha anche un enorme peso, o seguito, politico. Sono un popolo davvero interessante, questi americani.

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Ovvio, c’è anche chi i “Tea Party” non li digerisce. I più accorti fra costoro fanno di necessità virtù, ed è comunque una bella cosa, sia per codesti critici dei “Tea Party” sia per i “Tea Party” stessi. Che certa gente si trovi impossibiltata a fare spallucce, e che se non per amore almeno per startegica forza scenda a compressi con il movimento è cosa buona e giusta. Confrontarsi con questa realtà critica fa bene sia agli uni sia agli altri, sia a chi la critica la muove, sia a chi ne è oggetto.

Poi ci sono anche degli altri, che con i “Tea Party” ci si scornano e che non si piegano al compromesso strategico. Ciò che temono i critici da destra dei “Tea Party” è il populismo. Hanno ragione da vendere. Il populismo non è mai una bella cosa. Eppure continuo, e le testimonianze mi confortano a legione, a ritenere i “Tea Party” un fenomeno popolare e non populista. Scandalizza, e mica è un male, certa retorica del movimento contro le “élite di potere” e contro la “ruling class”. Dicono i critici da destra dei “Tea Party” che la loro è retorica bolsa: anche il loro personale, già oggi e a maggior ragione dopo le elezioni, è infatti una “ruling class”. Oppure quesi critici sferzano oltre, giudicando quella dei “Tea Party” una demagogia pericolosa: le élite sono connaturate alle società umane, se non sono buone quelle che dirigino il traffico ora le si sostituisca formandone altre. Tutto vero, verissimo. Epperò ciò che i “Tea Party” dicono chiaro è solo questo: la “ruling class” ha stufato. Non perché class, ma perché ruling. La retorica pubblica del movimento punta alle strutture di potere che hanno già dato prova di sé e brutta. Ovvio che vadano sostituite, ovvio che a sostituirle siano altre élite. Ma se questi nuovi ceti dirigenti fossero ora figli del popolo invece che di certi ambienti snob? Sarebbero un po’ più rozzi, ma per certo genuini. Immagino che la prima volta che i patrizi romani si sono trovati di fronte ai fulvi barbari arruffati del Nord sia corso loro il brivido raggelante lungo la schiena. Poi però ne è nata quella cosuccia che si chiama civiltà europea, presto occdientale. Gli Stati Uniti potrebbe trovarsi oggi a un crocevia non poi tanto dissimile. E ancora: “il popolo” non è “la massa” dei marxisti; è un insieme trasversale di persone responsabili che danno vita a intraprese, da Joe l’idraulico al più raffinato uomo di lettere. L’“élite di popolo” suonerà ossimoro, ma certo non orrore.

Sfoglio un paio di libri nuovi e me ne rendo conto subito. The Tea Party Manifesto: A Vision for an American Rebirth (WND Books, Washington 2010) di Joseph Farah è il “programma” steso dal fondatore di WorldNetDaily, il quotidiano indipendente on line che da anni offre meritoriamente l’altra faccia della medaglia delle news. Non glielo ha chiesto nessuno questo manifesto, ma che Farah lo abbia fatto da sé e abbia avuto la sapida sfrontatezza di proporlo al movimento è un gran segno. Farah è saltato sul carro dei “Tea Party” appena ne ha vista l’opportunità. Ha fatto bene. Hanno diritto di saltare sul carro del vincitore sempre e solo i falsari, o può farlo anche chi fiuta intelligentemente la riserva di potenzialità e di dirompenza di un movimento così? Pensate che l’imperatore Flavio Valerio Costantino detto il Grande (274-337) non ci abbia messo pure del calcolo politico quando scelse di dare retta alla visione del «In hoc signo vinces»?

A maggior ragione il discorso vale per il già leader della maggioranza Repubblicana alla Camera e oggi chairman di FreedomWorks di Washington (uno dei gruppi più attivi nell’organizzazione dei “Tea Party”) Richard “Dick” Armey, che con Matt Kibbe (presidente e direttore esecutivo di FreedomWorks) ha confezionato il volumetto Give Us Liberty: A Tea Party Manifesto (William Morrow, an Imprint of HarperCollins, New York 2010). Tutti quanti giù a scrivere l’abc non richiesto per il movimento, tutti che vogliono metterci sopra il cappello. Da cow-boy, questo è il bello.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]

http://www.loccidentale.it/articolo/la+vigilia.0097815

domenica 24 ottobre 2010

Tea party. Se il cambiamento è solo delusione (Il Tempo, 24/10/2010)

Marco Respinti ricostruisce la storia del movimento. Conservatori che contestano Obama e la sua politica liberal

di GIORGIO DEMETRIO

Sarebbe segno di provincialismo affermare che anche l'allergia verso i partiti tradizionali è più "charming" nella terra dello Zio Sam che in Italia; ma è un fatto che nel Bel Paese chi ne ha le tasche piene si orienti verso demagoghi alla Grillo, e che negli States, al contrario, quanti appenderebbero Obama a testa in giù non perdano tempo a imbrattarsi di viola e provino a far crollare l'illusione democratica guidati dagli stessi principi di Barry Goldwater (lo sfidante repubblicano di Lyndon Johnson alle presidenziali del '64) e Ronald Reagan; o perfino dei baldi "anarchici" che nel 1773 affondarono 45 tonnellate di tè in segno di protesta contro l'oppressione fiscale della corona britannica. Con ciò, di fatto, plasmando i comandamenti di cui si sarebbe nutrito il conservatorismo americano: governo limitato, fisco non rapace, libertà responsabile.
Alla clamorosa ribellione dei "Sons of liberty", passata alla storia con il nome di "Boston Tea Party", si ispirano oggi i più determinati detrattori di Barack Hussein Obama e di un partito repubblicano che non vorrebbero mai più rappresentato da "liberal" alla McCain. Il fatto nuovo della politica americana di questi mesi è appunto il "Tea Party movement", innervato da cenacoli spontanei di liberisti, pro-life e libertari spuntati nel paese a partire dal febbraio 2009. Intenzionati a "prendersi" il partito repubblicano, "conservatorizzandolo" come riuscì ai loro predecessori nelle stagioni di Goldwater e Reagan o, in caso di refrattarietà del vertice del Grand Old Party, "svuotandolo" per tentare l'impresa di costruire una terza forza che scardinerebbe il bipartitismo e ferirebbe le speranze elettorali dei repubblicani non conservative.
Origini e caratteristiche del fenomeno ce le racconta Marco Respinti, col piglio del profondo conoscitore degli affari conservatori d'Oltreoceano, nel libro "L'ora dei Tea Party", edito da Solfanelli. L'autore ci guida in un percorso agile, attraverso una serie di articoli a tema pubblicati da gennaio a luglio di quest'anno, che fa ben comprendere le ambizioni "rivoluzionarie" del movimento. Al GOP che traccheggia e cerca ancora una chiave per contrastare la iattura Obama, il "partito del tè" replica con facce e proposte che mirano a conquistare un posto al sole nelle elezioni di medio termine del 2 novembre prossimo. Se i candidati in "quota tazzina" ottenessero una larga affermazione, i repubblicani ostili all'antiabortismo e al free market avrebbero le spalle al muro: non potrebbero più limitarsi a scegliere a tempo quasi scaduto un candidato vicepresidente chiamato a presidiare il fianco destro, ma dovrebbero subire senza doglianze la "tutela" dei conservatori, fino a mettere in conto che lo sfidante dei democratici nel 2012 possa essere pescato tra le file della destra senza complessi.
Quella che ama la Palin, e si è piegata a votare McCain solo perché le spalle del veterano erano coperte dall'ex governatore dell'Alaska; che non teme di avere tre narici come i liberal le fanno credere ossessivamente, non ritenendo di doversi giustificare per il fatto di credere nella Croce e nel mercato, nello stato minimo e nella bandiera; che cercherà il suo front-runner tra due anni tra la stessa Palin e conservatori di sicuro impatto - anche "estetico", nello spirito dell'Obama alla rovescia - come il governatore dell'Indiana Mitchell Elias Daniels jr., di origini siriane, o il candidato governatore del GOP in South Carolina Nikki Haley, nome occidentale di Nimrata Randhawa.
Le elezioni di midterm rappresentano un banco di prova fondamentale per misurare la forza dei conservatori e capire quanto si stia sgretolando l'utopia di Obama. Respinti lo ha promesso: il libro avrà una "seconda puntata" di commento all'esito del 2 novembre e agli scenari che si apriranno. Con tutta la partigianeria che ci è propria, ci auguriamo profumino di tè.

http://www.iltempo.it/2010/10/24/1211521-party.shtml

martedì 19 ottobre 2010

Il Tea Party è solo l'ultima puntata della Rivoluzione Liberale

Intervista a Marco Respinti di Alma Pantaleo

Tutto ha avuto inizio il 19 febbraio 2009. Alla Borsa di Chicago, il cronista della Cnbc Rick Santelli aveva accusato la Casa Bianca di favorire i comportamenti rischiosi dei banchieri spericolati, dei manager fallimentari e dei cittadini che compravano case che non si potevano permettere. Il suo sfogo in diretta televisiva si concluse con l'idea di fondare un “Chicago Tea Party”. Da allora il movimento, che si ispira all’atto di protesta avvenuto nel 1773 da parte dei coloni americani contro il governo britannico, è cresciuto e si appresta ad affermare la propria autonomia – e chissà, a giocare un ruolo decisivo – nelle mid term del 2 novembre prossimo. Proprio ieri dal Nevada sono partiti gli autobus del “partito del tè” per una cavalcata elettorale da costa a costa a caccia di voti. Abbiamo fatto quattro chiacchiere sull’evoluzione, sulle prospettive future e sulle contraddizioni interne al movimento con Marco Respinti, presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk, che ha di recente pubblicato il libro “L’ora dei ‘Tea Party’. Diario di una rivolta americana”, edito da Solfanelli.

Marco, come nasce l’idea del suo libro?

È una raccolta di articoli di cronaca – alcuni tratti dalla rubrica che curo su l’Occidentale – che ho scritto nella prima parte del 2010 e aggiornato fino al mese di luglio, che descrivono quello che man mano sta accadendo attorno ai Tea Party. Il libro nasce dall’esigenza di descrivere uno spaccato più aderente al vero di questa realtà, visto che tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 molta della cronaca che è stata fatta in Italia sul fenomeno risulta lacunosa e spesso molto superficiale.

Perché avete scelto come limite temporale della raccolta il mese di luglio?

Il motivo per il quale ci siamo fermati al mese di luglio è che volevamo dare un quadro del fenomeno prima delle elezioni mid term di novembre. Una serie di altri articoli verrà poi pubblicata in un secondo volumetto subito dopo la fase elettorale e compirà anche una valutazione di quello che sarà stato il responso delle urne. Questo libro è, dunque, una sorta di prima puntata.

Oltre agli articoli sono presenti documenti di altro tipo?

Il libretto ha due appendici, che sono due saggi, scritti dopo le elezioni mid term del 2006 e quelle presidenziali del 2008, che offrono un’analisi, ad oggi non smentibile, di ciò che è successo in quelle circostanze. Le ho inserite perché secondo me sono il retroscena necessario per capire come si è arrivati a un fenomeno della portata del Tea Party che sta condizionando fortemente le prossime elezioni.

Che peso avranno effettivamente i Tea Party nelle mid term del 2 novembre?

Enorme. È prevedibile che molti candidati sostenuti dai Tea Party avranno un grosso successo, non tutti ce la faranno ma in ogni caso, queste elezioni saranno condizionanti per il Partito Repubblicano stesso non potrà più ignorare questa forza di popolo e di voti enorme. Tutto dipenderà da come i Tea Party sapranno gestire quella che secondo me sarà una vittoria, al di là della sconfitta di alcuni loro candidati.

Come giustifica questa vittoria del movimento?

Anzitutto il Tea Party non è un partito nel senso classico del termine, è una forza di base, autenticamente spontanea e popolare che noi, abituati a una logica più statalista, facciamo fatica a capire. Rappresentano solo l’ultima stagione del movimento conservatore, è un network che nasce come alternativa ai due partiti maggiori che non capiscono più le esigenze della gente. Lo fa giocando su due piani: dall’interno del Partito Repubblicano, condizionando il più possibile un numero sempre maggiore di candidati fino al punto di svuotarlo e scalarlo; e all’esterno dei due partiti maggiori, in particolare dal Partito Repubblicano, perché una grossa fetta del mondo dei Tea Party non tollera nemmeno più questa scalata all’interno del partito e propone una terza via. C’è da dire che a tutt’oggi non si tratta di un partito organizzato, forse non lo diventerà mai. Alcuni degli esponenti del Tea Party dicono che è meglio sia così perché finirebbe per cadere nella politica cinica e strumentale.

In un articolo di Rolling Stone il giornalista Matt Taibbi attacca il Tea Party facendo emergere delle contraddizioni interne al partito stesso, una fra tutte quella fiscale: “sono quelli che si lanciano contro il governo intrusivo ma sono i primi a beneficiare di stipendi, servizi sanitari e pensioni”…

Premetto che il fatto che ci siano stati sin da subito attacchi bipartisan al movimento sta a significare che i Tea Party hanno toccato corde sensibili e stanno avendo un enorme successo. Proprio in conseguenza di questo fatto si cerca di metterli in un angolo. Detto questo è difficilissimo dire cosa fa il Tea Party e come la pensa. È un movimento variegato, enorme, spontaneo, senza capi e non ha un’ideologia prestabilita. Quindi c’è chi vuole una dimensione dello Stato più ridotto e chi non lo vuole affatto, e quindi c’è sicuramente qualcuno più incline ad accogliere gli aiuti statali, ma bisogna fare nomi e cifre.

Altra questione sollevata dal giornalista di Rolling Stone è quella del razzismo e dell’immigrazione…

È facilissimo giocare questa carta molto squalificante. Se dò del razzista a qualcuno lo sotterro senza possibilità di replica. È una vecchia storia che risale alla candidatura di Obama, dove qualsiasi obiezione alle sue scelte politiche ed economiche veniva presa come una posizione da vecchio conservatore di destra, bianco e razzista. Come sempre nei movimenti di massa incontrollati, lo stupido capita ma questo non significa che si può cristallizzare il Tea Party come un movimento razzista, anche perché all’interno del partito stesso c’è una fetta considerevole di minoranze etniche. La questione dell’immigrazione è un'altra cosa: quella clandestina va combattuta, quella legale va regolamentata data la quantità di stranieri presenti in America, basti pensare alla situazione in Arizona.

Sulla questione razziale Taibbi afferma che gli esponenti del Tea Party sono convinti che i bianchi “siano una specie di minoranza oppressa nell’era di Obama”…

È facile fare giornalismo così. L’autore dovrebbe argomentare e giustificare questa frase citando fonti autorevoli. È innegabile che esista un fenomeno, quello del razzismo al contrario, dal tempo dei diritti civili ad oggi che ha ribaltato le sorti per cui tu non puoi mai criticare un nero non per motivi razziali, ma per motivi culturali e politici sennò passi per razzista. Ciò finisce per inibire chi nero non è.

Taibbi accusa il movimento di aver perso i suoi candidati preferiti, da Rand Paul a Sarah Palin che secondo lui sono stati del tutto integrati nel partito Repubblicano, contro cui si dovrebbe indirizzare la rabbia del movimento…

Può darsi che un fenomeno di questo tipo possa accadere, il potere interessa a tutti in fondo. Però questo lo dobbiamo vedere a conti fatti dopo il 2 novembre, quando si vedrà chi ce la fa e chi no alle elezioni e come si comporterà nei confronti dell’establishment del partito. Ammesso e non concesso che questi personaggi siano stati realmente integrati e corteggiati dal Partito Repubblicano, anche questo è segno di vittoria del mondo dei Tea Party, non un tradimento, perché cercare di riportare a sé quei candidati, come Sarah Palin, a cui i Repubblicani avevano voltato le spalle, significa che questi con il movimento che hanno dietro sono davvero indispensabili.

C'è stato qualche precedente storico?

Sarebbe la ripetizione di quello che è successo nel 1964 con Berry Goldwater, famoso candidato di destra, sconfitto alle presidenziali dello stesso anno, odiato dall’establishment del Partito Repubblicano che scelse di appoggiarsi al movimento conservatore che impresse al Partito Repubblicano una svolta interna che lo ha reso quello che è oggi, orientato più a destra di quello Democratico. Fu una vittoria del movimento perché riuscì a portare la politica sulle proprie esigenze e non a farsi strumentalizzare. Se succedesse ancora oggi con il Tea Party sarebbe un ulteriore vittoria.

Come vede la possibilità che, come ha sottolineato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, si abbia una piena sovrapponibilità del Tea Party al “microclima” italiano?

Il Tea Party in Italia esiste, io ne sono – dicono – un consigliere culturale. Non è ancora ai livelli di quello americano ma richiama al tema centrale della pressione fiscale, che è un problema anche nostro. Riprende lo stesso nome perché è fortemente evocativo e popolare. Ma quello che ha lanciato l’altro giorno Berlusconi e che è comparso sull’articolo di Repubblica è un’altra cosa. Lui ha detto che ci vorrebbe nel nostro Paese un qualcosa di simile a ciò che c’è negli Stati Uniti perché la rivoluzione liberale inaugurata nel 1994 ha esaurito la sua spinta propulsiva e necessiterebbe di una forza nuova che rinnovi e porti entusiasmo in un partito che ha avuto vicissitudini molto amare negli ultimi periodi, a causa ad esempio della rottura avvenuta per mano dei finiani. Berlusconi non sta cercando di arruolare il movimento Tea Party in Italia ma sta dicendo che ci sarebbe bisogno di una spinta movimentista, popolare, al di fuori del partito che sia capace di condizionare la politica e dare linfa nuova al pensiero già esistente. Mi sembra una cosa molto positiva.

http://www.loccidentale.it/articolo/tea+party.0097354

Recensione: "L'ora dei Tea Party" (Stefano Magni, "l'Opinine")

L’ora del tè scatta alle 5.00 del pomeriggio per tutti i popoli anglosassoni che si rispettino. L’ora del “Tea Party” è scattata il 15 aprile 2009, quando gli americani hanno dovuto, come tutti gli anni, finire di pagare le tasse agli uffici dell’Internal Revenue Service. E’ allora che è comparso un movimento politico nuovo, ma dalle radici antiche, che si oppone al gigantismo del potere statale.
Il giornalista e saggista Marco Respinti lo presenta a un pubblico italiano con il suo nuovo libro “L’ora dei Tea Party”, edito da Solfanelli, primo volume della nuova collana Us Polis.
L’ora del tè, in Italia, deve ancora scattare. E del fenomeno americano si parla ancora poco. L’intento del volume di Respinti, non è tanto quello di tracciarne una storia completa (ancora brevissima): è una raccolta di suoi articoli, scritti nel primo semestre del 2010 che spiegano, in modo anche molto comprensibile, cosa sia il nuovo soggetto politico. Le cause sono presto dette: un mix di progressismo nelle scelte etiche e di statalismo spregiudicato in quelle economiche, fanno di Baraci Hussein Obama il presidente più ideologico della storia recente americana. Un leader
più europeo continentale che americano, sempre più staccato dai sentimenti della popolazione.
In America, nella parte di opinione pubblica che si identifica con il movimento conservatore (la “Right Nation”), istanze di libertà economica e di tradizionalismo etico si fondono molto più che in Europa. Le famiglie chiedono libertà dallo Stato per preservare la loro funzione di cellule-base della società. Essere tradizionalisti, negli Stati Uniti, vuol dire soprattutto voler conservare una storia di libertà, di fuga di coloni dalle tirannie europee, di creazione di una società nuova basata su regole religiose (o naturali) e non soggetta all’arbitrio di un potere assoluto.
Il Tea Party iniziale, la rivolta a Boston del 1773, rievocata nel primo capitolo del volume, fu essenzialmente una protesta contro l’arbitrio del fisco britannico. E fu questa rivolta anti-fisco a dare il là a tutta la Rivoluzione Americana. E’ questa la base ideale e sentimentale che ha dato origine ai Tea Party. Respinti ci fa conoscere i personaggi principali del movimento. Non solo Sarah Palin (che ormai è una celebrità in tutto il mondo, dopo la sfortunata candidatura a vice-presidente nel 2008), ma anche Scott Brown, il più laico fra gli esponenti del Tea Party, neoeletto Senatore repubblicano del Massachusetts, l’uomo che ha spodestato il feudo dei Kennedy. Si parla di un vecchio volto noto quale Newt Gingrich, autore della spettacolare vittoria repubblicana alle elezioni di medio termine del 1994 e della novità Nikki Haley, indiana d’India, vittima di una campagna di diffamazione su sue presunte infedeltà coniugali, ma vincitrice delle primarie repubblicane del South Carolina proprio perché sostenitrice del trinomio “Dio-Patria-Famiglia”.
E infine Randall Howard “Rand” Paul, l’uomo che ha risvegliato l’attenzione anche dei più sonnacchiosi commentatori politici: figlio del congressman libertario Ron Paul ha vinto in modo schiacciante le primarie repubblicane nel Kentucky e sarà, stando ai sondaggi, eletto senatore.
Soprattutto (è questo il valore aggiunto di questo piccolo volume) si parla di queste idee e di questi uomini adesso, prima delle elezioni del 2 novembre. Prima che se ne impossessino i grandi media americani e poi, per contagio, i “giornaloni” italiani. Prima che queste idee e questi uomini diventino stereotipi e caricature nella prossima campagna di delegittimazione pubblica, al pari di chi li ha preceduti: Barry Goldwater, un semi-libertario dipinto come un razzista, Ronald Reagan, un uomo pio dipinto come signore della guerra, o i neoconservatori, progressisti democratici dipinti come una cupola reazionaria del potere. Si sa già come verranno caricaturizzati i tea partiers: bianchi, razzisti, armati. Intanto leggiamoli per quello che sono nella realtà.

Stefano Magni
l'Opinione, 19/10/2010

sabato 16 ottobre 2010

Tea Party nel Pdl, il no della Sicilia

Berlusconi vorrebbe creare un nucleo dalle tematiche ultra-conservatrici in Italia. Nell'Isola esiste già una sezione fondata a Catania un paio di settimane fa. Che risponde pollice verso alle avance del premier. Nessuna strumentalizzazione politica, l'obiettivo è la riduzione del peso fiscale

di Carlo Lo Re

Il Tea Party, il movimento anti-tasse americano che sta diffondendosi anche in Europa, inizia a fare gola ai big della politica tradizionale. E così, dopo l'interessamento della repubblicana statunitense Sarah Palin, nel 2008 vice del candidato alla Casa Bianca John McCain, in Italia arriva quello di Silvio Berlusconi, intenzionato ad utilizzare il nuovo strumento di raccolta del consenso, basandosi su temi pro-life e a favore della famiglia, per risalire la china nei sondaggi. Perché, ormai è chiaro, ad un Popolo della Libertà che perde pezzi non può più bastare lo slogan della rivoluzione liberale, soprattutto con la spada di Damocle di elezioni anticipate, impensabili appena un anno fa.
Consultazioni anticipate che potrebbero arrivare pure in Sicilia, dove il Pdl vive un periodo certo burrascoso da quando, nel luglio 2009, è risultata difficilmente ricomponibile la frattura dei vertici regionali, Giuseppe Castiglione e Domenico Nania, con Gianfranco Micciché. La nascita del Pdl-Sicilia prima, appunto nell'estate dello scorso anno, e di Forza del Sud oggi sono elementi di cui non si può non tenere conto nel sempre magmatico panorama politico siciliano, ma certo il Pdl lealista nell'Isola è ancora una corazzata. Corazzata che non è da escludersi possa dover nuovamente affrontare le urne a breve. Sia a livello regionale che, con un classico effetto domino, a livello provinciale e comunale.
Proprio dalla Sicilia, in pieno (ma forse bisognerebbe dire anche in perenne) fermento pre elettorale, arriva un no secco al tentativo di “scippo” del premier Berlusconi dell'odierna idea principe della politica a stelle e strisce (sulla quale, per le Edizioni Solfanelli di Chieti, è appena uscito il bel saggio di Marco Respinti dal titolo L'ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana). Perché in Italia come in Sicilia il Tea Party esiste, è strutturato e cerca anche di diffondere il suo messaggio ultraliberista, con giornate di studio e dibattiti.
Nell'Isola, dove la locale sezione è stata ufficialmente presentata a Catania durante un convegno qualche settimana fa, pronta è stata la reazione alla “avance” del premier.
«Un "Tea Party di partito", oltre che essere uno strambo bisticcio di parole, è assolutamente improponibile», spiega a Milano Finanza Sicilia Orazio Mario Zaccà, uno dei promotori del movimento antitasse che a breve dovrebbe riunirsi per definire cariche e ruoli regionali.
«Rivitalizzare tramite le idee fresche del Tea Party sommate allo “stile Mediaset” un Pdl in forte crisi e riuscire a riattivare l’elettorato di centrodestra mi pare un po' difficile – prosegue Zaccà – ma soprattutto sarebbe la morte di un progetto di più ampio respiro, ambizioso e nobile, ovvero una piattaforma di base e dalla base che dialoghi con tutti, ma non si allei con nessuno, sempre e comunque esterna ai partiti».
Insomma, il Tea Party Italia, il cui brand è stato opportunamente registrato tempo addietro, è fiero della sua autonomia e, sottolinea Zaccà, «non è agli ordini di nessuno, bensì al servizio del Paese e continuerà senza tentennamenti nell'opera di diffusione delle sue idee, ossia l’abbattimento delle tasse e la conseguente ripresa dell'Italia, colosso economico in crisi sì, ma che certo ha tutte le potenzialità per tornare ad essere il quinto produttore mondiale. In ogni caso, il progetto ha senso solo se rimane una lobby di cittadini “laici” che conducono una battaglia contro il fisco opprimente e la spesa pubblica tentacolare».
Insomma, Silvio Berlusconi deve trovare un altro modo per risollevare le sorti del Pdl, perché di “cedere il marchio”, per così dire, e farsi governare dalla Daniela Santanchè (questo il nome che pare abbia deciso il premier per guidare l'iniziativa di “acquisizione” fondandola sui temi della famiglia e della vita) i giovani del Tea Party proprio non ne vogliono sapere.
Come i Tea Party Patriots, con cui gli italiani sono in contatto, respingono da sempre il tentativo di stabilire legami politici fatto dall’establishment repubblicano, allo stesso modo il Tea Party Italia si tiene distante dai partiti. «Del resto – chiosa Zaccà – non siamo noi a dover inseguire i politici, semmai è il contrario, perché in ogni Paese democratico che si rispetti è la politica a cogliere le esigenze della società civile e fornire risposte. O almeno tentarci».

Milano Finanza Sicilia, sabato 16 ottobre 2010, p. S2

http://www.milanofinanza.it/giornali/preview_giornali.asp?id=1682368&codiciTestate=40&sez=giornali&testo=&titolo=Tea%20Party%20nel%20Pdl,%20il%20no%20della%20Sicilia

venerdì 15 ottobre 2010

BastaBugie n.162 del 15 ottobre 2010

IN AMERICA LA POLITICA VICINO AL CUORE DELLA GENTE: OVVERO QUANDO LE TASSE SONO DAVVERO TROPPE...
L’ora dei Tea Party: diario di una rivolta americana
da US Polis (colllana diretta da Marco Respinti)

IL 20 OTTOBRE ESCE IN LIBRERIA Marco Respinti, "L’ora dei 'Tea Party'. Diario di una rivolta americana, Solfanelli-Columbia Institute, Chieti-Milano 2010, primo volume della collana US Polis, diretta da Marco Respinti ed edita in collaborazione con il Columbia Institute (www.columbiainstitute.it)

Il popolo degli Stati Uniti d’America è giunto a saturazione. Il “cambiamento” promesso dal presidente Barack Hussein Obama è una delusione colossale. Dal 19 febbraio2009 la reazione alle politiche perseguite dalla sua Amministrazione ha preso forma attraverso una rivolta popolaree piuttosto trasversale di natura fiscale, i “Tea Party”: un richiamo alla storia e alle tradizioni politiche del Paese, un appello allo “spirito del 1776” e al conservatorismo costituzionale, una formula felice e accattivante. I “Tea Party” crescono, di continuo, in tutto il Paese.Sono cenacoli informali, riunione di poche decine di persone oppure raduni con migliaia di partecipanti, alcuni famosi, la maggior parte cittadini comuni. Gridano alla politica che la misura della sopportazione è oramai colma, che nessuno ha più voglia, semmai l’avesse avuta prima, di pagare i costi e i danni prodotti da altri, soprattutto da uno Stato sempre più invadente e rapace. La crisi finanziaria mondiale, iniziata negli Stati Uniti con il crollo del sistema surreale dei mutui “allegri”, ha innescato la miccia e oggi continua ad alimentare la protesta, fornendo il quadro di riferimento al movimento. Ma i “Tea party” sono molto più della pur dura e doverosa contestazione dell’Amministrazione Obama e delle sue politiche liberal. Sono il modo in cui sta prendendo vita, nuova vita, il movimento conservatore grassroots, cioè popolare ma non populista, dopo la sconfitta subita dal Partito Repubblicano alle elezioni del 2008, la formazione politica in cui diversi suoi esponenti avevano creduto, almeno in parte, di potersi riconoscere.

INDICE del volume

1. Introduzione
2. Obama, un anno dopo
3. La cerimonia (americana) del tè
4. E adesso controrivoluzione
5. Il cuore “fusionista”
6. Mitch Daniels: mercato e diritto alla vita
7. Scott Brown, l’incubo dei Democratici
8. La débâcle dei Kennedy e la “vendetta” di Federer
9. Falsi problemi
10. Persino il Massachusetts
11. Pensando alla Corte Suprema
12. Ma quali estremisti…
13. I dieci grattacapi dei Democratici
14. Pensata alla Corte Suprema
15. Rand Paul, la sveglia
16. Newt Gingrich, proprio lui
17. Attenzione a Sarah Palin
18. Nikki Haley, che non fa l’indiana
19. Nikki, come volevasi dimostrare
20. Petrol-tasse
21. Bipartitismo a rischio?
22. «Una tempesta perfetta per abbattere Obama»

APPENDICE
I. 7 novembre 2006: «Gli Stati Uniti d’America sono ancora un Paese conservatore»
II. Stati Uniti d’America, 4 novembre 2008: l’elezione del 44° presidente federale

Scrivete a USPolis@columbiainstitute.it
PRENOTATE IL LIBRO presso l'Editore Tel. 0871/561806 - Fax 0871/404798- Cell. 335/6499393 - edizionisoflanelli@yahoo.it

da US Polis (colllana diretta da Marco Respinti)




Nella battaglia per il fisco i Tea Party rispolverano Fred Thompson

Estendere a tutti i cittadini statunitensi l’alleggerimento della pressione fiscale voluto dal presidente George W. Bush jr. come vogliono ora i Repubblicani, oppure continuare a ringhiare “girotondinamente” contro “i ricchi” come vogliono i Democratici, spalleggiati dal presidente Barack Hussein Obama? E' il dubbio amletico (e tale perché legato a doppio filo alla sopravvivenza dei due partiti maggiori della scena politica statunitense) che attanaglia il partito degli elefanti (i Repubblicani) e il partito degli asini (i Democratici). Una questione decisiva, scottante, pressante, ma la risposta viene (a loro) facile: se ne parlerà dopo le elezioni del 2 novembre, almeno così dicono gli analisti, gli osservatori, persino gli addetti alle cose politiche.

Ovvio, farlo prima, fare qualsiasi cosa prima in questo ambito, significherebbe pestare comunque i piedi a qualcuno, a destra o a sinistra, a questi o a quelli, ai “ricchi” oppure ai “poveri”, motivo per cui è meglio esorcizzare la situazione rimandando tutto. Dopo, infatti, qualsiasi cosa accada, sarà appunto dopo. Tipo passata la festa, gabbato lo santo, se alla politica americana riesce – con manovra bipartisan – il colpo gobbo di distrarre per un poco l’attenzione degli elettori.

Rimandare la ferale decisione conviene infatti adesso, ancorché per motivi opposti, a entrambi i partiti in lizza. Ai Democratici ovviamente conviene giacché vorrebbero fare tutto tranne gettare nuova benzina sul fuoco della protesta fiscale, una fiamma ardente ben custodita dalle vestali guardinghe e sollecite dei “Tea Party”; e ai Repubblicani pure, poiché le lezioni sono sempre le elezioni, e non c’è mai sondaggio, nemmeno il più favorevole, che possa garantire preventivamente la certezza della vittoria: vuoi mai che qualcuno si lasci vincere dalla demagogia populista della Sinistra e creda alla fanfaluca dei “ricchi” cambiando repentinamente all’ultimo momento decisione elettorale? No, quindi meglio aspettare.

Eppure il taglio delle tasse di Bush è uno dei nodi centrali dell’immediato futuro americano. Da lì passa una parte non residuale del rilancio economico del Paese, da lì passa la capacità della politica statunitense d’inventarsi un futuro possibile per una società senza dubbio in crisi. Se infatti la riduzione fiscale a suo tempo voluta dalla Casa Bianca dovesse venire malauguratamente lasciata decadere a fine anno senza essere reiterata e rinnovata, a rimetterci maggiormente sarebbe il ceto medio americano. Mica “i borghesi”, meno ancora “i ricchi” (entrambi astrazioni marxiste), ma la gente comune, le imprese (non so se solo quelle piccole e medie, certamente però quelle che fan girare produzione, economia e denaro), il lavoro (vero), le famiglie (sempre). Insomma, i cittadini e la società a misura loro.

Per questo il ceto medio, che in parte enorme ingrossa le fila dei “Tea Party”, ne ha fatto un punto nodale della propria resistenza allo statalismo, trovando pure un testimonial importante (e dandoci l’occasione per riportare l’attenzione su un bel personaggio della politica made in USA), Fred Thompson. Di Freddie Dalton Thompson, classe 1942 (così all’anagrafe), i più ricorderanno il bel volto americano visto alla tivù come interprete di serial popolari quali Matlock e Law and Order (dove veste i panni di un procuratore distrettuale conservatore), senza scordare un’apparizione fugace (dove fa un uomo politico che compare alla tivù) in Sex and the City e le interpretazioni cinematografiche in Senza via di scampo, Cape Fear. Il promontorio della paura, Nel centro del mirino e Caccia a Ottobre Rosso. Meno ne ricorderanno la partecipazione alle primarie Repubblicane del 2008 per la Casa Bianca.

Thompson (senatore per lo Stato del Tennessee dal 1994 al 2003, visiting fellow all’American Enterprise Institute for Public Policy Research di Washignton, esperto di questioni di sicurezza nazionale e intelligence) uscì di scena prestissimo, come avviene spesso in casi analoghi ai suoi, ma quella sua sortita, che pure lui sapeva benissimo essere di bandiera, cioè poco più che di testimonianza (bene inteso: con tutto il peso virtuoso che la testimonianza diretta in cose decisive ha sempre), ha contribuito non poco a farne conoscere l’impegno in politica, lo spirito conservatore, insomma il cuore che batte dalla parte giusta (che in inglese si dice right…). Oggi Thompson è fra i più accesi sostenitori della necessità di estendere il taglio fiscale di Bush a tutti i cittadini americani e ben oltre la scadenza di quella virtuosa (una volta tanto) provvisione governativa fissata al 31 dicembre prossimo. Dice infatti senza mezzi termini che se la riduzione fiscale non verrà estesa nel tempo e nel numero dei beneficiari sarà nientemeno che una catastrofe per l’intera economia nazionale.

La massiccia campagna di sensibilizzazione che lo vede protagonista ora è organizzata dalla “League of American Voters”, una delle sigle ad hoc che negli USA nascono per scopi single-issue; sugli schermi tivù il suo viso noto e popolare ripete incessantemente che meno tasse per tutti fa bene a ognuno; e Ben Shalom Bernanke, il presidente del Comitato dei governatori della Federal Reserve, è venuto inaspettatamente in aiuto a lui e ai suoi dicendo di fronte al Congresso che ora come ora l’economia statunitense è troppo fragile per poter sopportare un aumento delle imposte. Ora come ora, cioè, la lotta contro la pressione fiscale esagerata è, negli Stati Uniti (solo negli Stati Uniti?), lo strumento principale per contrastare l’esasperazione statalistica, la quale, ora come ora (sempre?) è il primo nemico di quella libertà responsabile degli individui che fa del loro insieme un popolo e non una massa amorfa, anestetizzata e asservita.

Per questo i “Tea Party”, che sono un popolo sveglio e non una massa indolente, chiedono la riduzione fiscale qui e subito; per questo un Fred Thompson, che la gente conosce bene e il cui successo dal popolo dipende non certo dalla massa, si spende in prima persona affinché la continuazione della linea Bush in materia fiscale, la discussione della quale la politica vorrebbe far slittare nel dimenticatoio del dopo elezioni, sia presente nel cuore e nelle menti di ogni elettore americano nel fatidico giorno delle urne. Di modo che chi il 2 novembre si candida a ottenere il favore del popolo che non è andato a massa sia costantemente preda di timore e tremore.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institutee direttore del Centro Studi Russell Kirk.

http://www.loccidentale.it/articolo/i+tea+party+sono+rimasti+gli+unici+a+non+voler+dimenticare+il+taglio+fiscale.0097209

giovedì 14 ottobre 2010

CONTRO LE TASSE ("Libero", Giovedì 14 ottobre 2010, p. 37)

CONTRO LE TASSE. Anche in Italia è l’ora del Tea Party ("Libero", Giovedì 14 ottobre 2010, p. 37)

CONTRO LE TASSE

Anche in Italia è l’ora del Tea Party

Un libro di Marco Respinti ricostruisce la storia del movimento Usa

E spiega che pure da noi può avere successo la battaglia anti-Fisco

di Andrea Morigi

«Noi ci teniamo armi, soldi e libertà. Obama tieniti il tuo cambiamento», recitano alcuni significativi cartelli inalberati durante i Tea Party statunitensi. Polemizzano contro lo strapotere federale - il Big Government - che ha assunto il volto dell'attuale presidente statunitense e il corpo della burocrazia di Washington DC.

Eppure, di questi comitati spontanei di rivolta liberal-conservatrice si dice che facciano addirittura il gioco di Obama, indebolendo le strutture e la credibilità del partito repubblicano. È la chiave di lettura preferita da una buona parte dei commentatori italiani di cose americane, che pigramente citano a sostegno delle proprie tesi alcuni sondaggi favorevoli ai democratici, dati ultimamente in ripresa. Il 2 novembre prossimo, data delle elezioni di metà mandato per il rinnovo del Congresso e di un terzo del Senato nordamericani, si vedrà chi aveva ragione.

Lo spirito dell'Indipendenza

Di fatto, il Gop era stato sconfitto alle presidenziali del 2008. Cioè prima dell'insorgenza. Attribuire responsabilità retroattive non è né politicamente onesto né scientificamente rispettoso della realtà. Anzi, la storia a stelle e strisce sta a dimostrare semmai che, al distacco della classe dirigente repubblicana dallo "spirito del 1776", cioè dalla Dichiarazione d'Indipendenza americana, corrisponde un'eguale e contraria perdita di consensi.

Nell'attesa che i risultati delle urne confermino la regola, e sempre a patto che si intenda uscire dal coretto (politicamente) corretto, composto da gente intimorita perfino da Sarah Palin e Glenn Beck, bisogna invece andarsi a leggere il volume di Marco Respinti, L'ora dei Tea party. Diario di una rivolta americana (Solfanelli editore, pp. 160, 12 euro). L'autore è fra gli studiosi che dispongono degli strumenti adeguati per bocca sul voto americano. Si ripubblicano qui alcune sue memorabili quanto complesse ed esaustive analisi dei flussi elettorali, già comparse su “Cristianità”, la rivista di Alleanza Cattolica. Ma alla precisione accademica si accompagna la capacità di cimentarsi con la cronaca, salvando però del materiale che forse si rivelerà utile all'inquadramento del fenomeno dal dimenticatoio in cui per forza di cose finiscono gli articoli dei quotidiani.

In realtà «i "Tea Party" rappresentano oggi la sanior pars del mondo americano, della sua tradizione conservatrice. Il loro altro nome è "fusionismo"», scrive Respinti, «la loro realtà l'essere laici sul serio e però religiosi, pro-life e pro-market, e l'una cosa poiché l'altra e viceversa, al contempo tradizionalisti e libertarian, pionieri e padri di famiglia assieme».

Ma la scommessa del movimento, nato il 19 febbraio 2009 ispirandosi alla rivolta del tè contro l'Inghilterra "statalista" del XVIII secolo, non è che all'inizio sebbene i risultati siano innegabili.

Da noi, il fenomeno è ancora più acerbo. C'è un Tea Party Italia che deve difendersi dall'accusa più scontata, il «tu vuò fa' l'americano», con la reazione più efficace, cioè richiamando l'attenzione sulla questione fondamentale, cioè le tasse. Non è necessario importare né scimmiottare nulla da Oltreoceano. La pressione tributaria è già sufficientemente alta in Italia per potersi concentrare per il momento al solo obiettivo della riduzione fiscale. Ne trarrebbero giovamento le imprese, ma anzitutto le persone e le famiglie, perché nel contempo si ridurrebbero le dimensioni del Moloch statale onnipervasivo e spendaccione.

Il Moloch statalista

Di qua e di là dall'Atlantico, in fondo, tutto l'Occidente si trova a fronteggiare, sebbene con velocità e intensità diverse, la stessa minaccia da parte di un dispotismo democratico che si serve delle imposte per alimentare una spesa pubblica mostruosa.

Ed è quello lo strumento con cui anche le libertà fondamentali della persona vengono sacrificate sull'altare del dispotismo democratico dirigistico. Anche limitarsi al solo pareggio di bilancio, tutto sommato, rappresenterebbe una vittoria storica per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Tanto che quella battaglia potrebbe essere condivisa anche da ambienti non strettamente liberisti.

Perciò trattare i Tea Party come un fenomeno esclusivamente libertario sarebbe limitativo. Per alcuni analisti, il peccato originale consisterebbe proprio nella monotematicità. Salvo poi, quando i repubblicani grassroots arrivano a riscoprire il diritto naturale e i princìpi non negoziabili della dottrina sociale della Chiesa, denunciarne la deriva reazionaria. Semplicemente, chi teme i Tea Party rifiuta Dio, la patria, la famiglia e la proprietà privata. In America come in Italia.

di Andrea Morigi

“Libero”, Giovedì 14 ottobre 2010, p. 37

martedì 12 ottobre 2010

L’ora dei tea party (www.ilculturista.it)



Il popolo degli Stati Uniti d’America è giunto a saturazione. Il “cambiamento” promesso dal presidente Barack Hussein Obama è una delusione colossale. Dal 19 febbraio 2009 la reazione alle politiche perseguite dalla sua Amministrazione ha preso forma attraverso una rivolta popolare e piuttosto trasversale di natura fiscale, i “Tea Party”:un richiamo alla storia e alle tradizioni politiche del Paese, un appello allo “spirito del 1776” e al conservatorismo costituzionale, una formula felice e accattivante. I “Tea Party” crescono, di continuo, in tutto il Paese. Sono cenacoli informali, riunione di poche decine di persone oppure raduni con migliaia di partecipanti, alcuni famosi, la maggior parte cittadini comuni. Gridano alla politica che la misura della sopportazione è oramai colma,che nessuno ha più voglia, semmai l’avesse avuta prima, di pagare i costi e i danni prodotti da altri, soprattutto da uno Stato sempre più invadente e rapace. La crisi finanziaria mondiale, iniziata negli Stati Uniti con il crollo del sistema surreale dei mutui “allegri”, ha innescato la miccia e oggi continua ad alimentare la protesta, fornendo il quadro di riferimento al movimento. Ma i “Tea party” sono molto più della pur dura e doverosa contestazione dell’Amministrazione Obama e delle sue politiche liberal. Sono il modo in cui sta prendendo vita, nuova vita, il movimento conservatore grassroots, cioè popolare ma non populista, dopo la sconfitta subita dal Partito Repubblicano alle elezioni del 2008, la formazione politica in cui diversi suoi esponenti avevano creduto, almeno in parte, di potersi riconoscere.

Proprio in questi giorni è in uscita, presso l’editore Solfanelli, un’interessante raccolta di articoli dedicati all’avvento dei Tea party, ad opera del giornalista Marco Respinti, studioso del pensiero conservatore anglo-americano, senior Fellow presso The Russell Kirk Center for Cultural Renewal (Mecosta, Michigan) e direttore della sua sezione italiana, il Centro Studi Russell. S’intitola “L’ora dei Tea party” e costituisce una lettura illuminante per tutti color che desiderino documentarsi sul fenomeno.

http://www.ilculturista.it/cultura/?p=5154