martedì 30 novembre 2010
mercoledì 3 novembre 2010
martedì 2 novembre 2010
L'ora dei Tea Party, recensione di Mario Secomandi
A cavallo delle elezioni di mid-term negli Stati Uniti, si rivela degna di nota la disamina del fenomeno politico venuto alla ribalta già da molti mesi, ossia l'irrompere del movimento popolare dei Tea Party. Prendendo il nome dalla rivolta sulla cui scia le colonie britanniche dell'America Settentrionale, a fine 1700, ottennero l'indipendenza dalla Corona, i Tea Party sembrano rappresentare, in questo momento, il più consistente segno di speranza per il rinnovamento della politica americana. E' un movimento nato realmente «dal basso», dalla gente. Moltissime persone hanno cominciato, dopo la vittoria elettorale di Obama, a riunirsi attorno a cenacoli culturali, ed hanno dato vita a raduni e manifestazioni di massa per il cui tramite esprimere la propria contrarietà alla linea politica portata avanti dal nuovo presidente federale.
I Tea Party sono dunque la nuova espressione della «Right Nation» statunitense, perché incarnano l'anima più genuina e profonda del conservatorismo sociale e popolare americano, volendo coniugare a livello culturale e politico i valori del liberalismo con quelli del cristianesimo. Al centro della loro proposta politica c'è la difesa dei principi stessi che stanno alla base della Costituzione americana, come quelli di uno Stato che non sia un moloch che tutto dall'alto pianifica, dirige e controlla, ma che garantisca la sicurezza e la libertà dei cittadini e si ponga sempre al servizio di questi. Da qui la richiesta di un abbassamento del carico fiscale in modo da dare agli individui, alle famiglie ed alle imprese l'ossigeno vitale per poter operare. Occorre poi - sostengono ancora gli esponenti di questo movimento - per dare un senso e contenuto positivo alle libertà, fare riferimento ai valori insieme laici e cristiani della difesa della vita dal concepimento, della promozione della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, della ricerca scientifica e bioetica che non utilizzi gli embrioni umani come cavie di un progresso tecnico senza limiti morali ed etici. Rilevante è infine la difesa della civiltà occidentale dalle minacce ed assalti del terrorismo internazionale islamista.
Appoggiando uomini politici in auge come Ron e Rand Paul, Newt Gingrich e Dick Armey, i Tea Party possono nondimeno spiccare il volo e passare dalla fase movimentista all'era politico-istituzionale, sostenendo in maniera compiuta, anche in vista delle future elezioni presidenziali del 2012, l'ex governatrice dell'Alaska nonché ex candidata alla vicepresidenza federale Sarah Palin. E' opportuno ricordare, a questo proposito, che, se c'è un demerito nella sconfitta dei Repubblicani alle scorse elezioni presidenziali, questo va imputato non alla Palin ma piuttosto al non così accentuato appeal comunicativo di John McCain ed alla sua tendenza a smarcarsi troppo dalla piattaforma politica di George W. Bush e dall'eredità dei suoi otto anni di governo. Inoltre - dato da non sottovalutare - la Palin sa far fronte con disinvoltura alle critiche personali ed ideologiche mossegli dall'establishment liberal e radical-chic che influenza molti dei centri di potere forti d'oltreoceano. Palin è in grado di incarnare molto bene l'anima della destra americana ed è forte della sua preziosa esperienza di governo istituzionale in Alaska.
Insomma, se il Partito Repubblicano vuole riemergere dalla crisi in cui è piombato contestualmente alla sconfitta di McCain, non può che incontrarsi con il grande movimento conservatore liberale, sociale, popolare e cristiano, rappresentato oggi soprattutto dai Tea Party. La storia politica statunitense ha a più riprese dimostrato che il Grand Old Party vince ed ha successo se non si accontenta e va oltre l'approccio moderato, istituzionale, attendista, che pretende e s'illude di poter vivere di rendita ed adagiarsi sugli allori. Così era accaduto con Ronald Reagan e con George W. Bush, uomini che hanno inciso e sono passati alla storia. Questo è ciò che serve per arginare la deriva politico-culturale che gli Stati Uniti stanno imboccando con Obama.
http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/201011023539/usa/diario-di-una-rivolta-americana.html
Da Obama al Tea party: l’America che vota (di Matteo Sacchi)
Il primo è Obama, l’irresistibile ascesa di un’illusione a firma di Martino Cervo e Mattia Ferraresi (Rubettino, pagg. 120, euro 10, prefazione di Giuliano Ferrara). Il secondo è L’ora dei “Tea Party” di Marco Respinti (Solfanelli, pagg. 160, euro 12). Il merito di Cervo (capo redattore di Libero) e Ferraresi (corrispondente da Washington del Foglio) è quello di aver colto nel loro libro il ruolo messianico che Obama ha finito per incarnare agli occhi della maggioranza degli americani. La sua arma vincente è stata la capacità di creare un sincretismo «simbolico-religioso» che lo ha trasformato in una sorta di redentore laico, un’icona degna delle fantasie di Gioacchino da Fiore. Vi sembra un’esagerazione? Magari lo è, ma il duo Cervo-Ferraresi la argomenta bene, utilizzando gli stessi discorsi di Obama: «È in quelle strade, in quei sobborghi che ho sentito per la prima volta lo spirito di Dio che si rivolgeva a me. È lì che mi sono sentito chiamato a un compito più alto...» (Discorso al National Prayer Breakfast, 5/2/2009). Insomma per usare le parole di Giuliano Ferrara: «Una antica tentazione di religione civile si manifesta in Obama... è ciò che la gente sopra tutto chiede o sembra chiedere nel nostro tempo credulone senza fede».
E se questa tentazione sincretica è comunque parte del sogno americano, Marco Respinti - giornalista e Senior Fellow del Russell Kirk Center - racconta invece la rivolta della concretezza del “Tea Party”. Perché anche la concretezza e l’ideale libertario, l’odio verso il pubblico e la tassazione sono miti americani fondanti. E qualcuno li sta riscoprendo. Il suo libro è nato riunendo e riorganizzando molti degli articoli che ha scritto per diverse testate italiane: leggendo questo “patchwork” (del resto è la coperta preferita delle massaie a stelle e strisce) si capisce come lo spirito di rivolta fiscale che caratterizzò la nascita degli Stati uniti sia ancora ben vivo. Ecco perché cenacoli informali, composti da poche decine di persone, sono riusciti a trasformarsi in un movimento che contesta Obama dal basso. Un movimento che potrebbe riuscire a scatenare la tempesta perfetta per abbattere il piedistallo su cui è issato il presidente-Nobel.
Matteo Sacchi
http://www.ilgiornale.it/cultura/da_obama_tea_party_lamerica_che_vota/02-11-2010/articolo-id=484161-page=0-comments=1
lunedì 1 novembre 2010
È scoccata “L’ora dei Tea Party” (la Discussione, 31/10-1/11/2010)
Il 19 febbraio 2009 il malcontento si è incanalato in una rivolta popolare e piuttosto trasversale di natura fiscale, i “Tea Party”: un richiamo alla storia e alle tradizioni politiche del Paese, un appello allo “spirito del 1776” e al conservatorismo costituzionale, una formula felice e accattivante.
Come racconta Marco Respinti in “L’ora dei Tea Party”, edito da Solfanelli, negli States il fenomeno sta crescendo e si sta moltiplicando: Tea Party sono cenacoli informali, riunioni di poche decine di persone oppure raduni con migliaia di partecipanti, alcuni famosi, per la maggior parte cittadini comuni. Gridano alla politica che la misura della sopportazione è oramai colma, che nessuno ha più voglia di pagare i costi e i danni prodotti da altri, soprattutto dallo Stato. La crisi finanziaria ha innescato la miccia e oggi continua ad alimentare la protesta. Ma i “Tea party” sono molto più della pur dura e doverosa contestazione dell’Amministrazione Obama e delle sue politiche liberal. Sono il modo in cui sta prendendo vita, nuova vita, il movimento conservatore grassroots, cioè popolare ma non populista, dopo la sconfitta subita dal Partito Repubblicano alle elezioni del 2008.
la Discussione
domenica/lunedì
31 ottobre/1 novembre 2010
p. 7