venerdì 17 settembre 2010

La vittoria della O’Donnell e il conservatorismo Usa

Il conservatorismo è donna con la gonna, almeno negli Stati Uniti d’America. Dopo Sarah Palin, Nikki Haley e un numero davvero cospicuo di nomi (per ora) meno noti ma non insignificanti, l’affermazione elettorale di Christine O’Donnell alle primarie del Partito Repubblicano svoltesi martedì 14 settembre in uno Stato non particolarmente noto per essere un bastione del “fondamentalismo di provincia” qual è il Delaware ha certamente del clamoroso, anche se (oramai) non dell’inatteso.

Clamoroso quel successo lo è poiché, comunque sia, affermazioni di popolo tanto nette per certo personale politico tanto adamantinamente schierato su posizioni culturali opposte ai trend che, comunque sia, vengono più o meno da tutti ritenuti normali, maggioritari e talora persino dominanti è un fatto che ha la forza di mandare a gambe all’aria ogni tavolo precostituito. E non inatteso quell’evento lo è giacché il lungo cammino che da mesi avvicina gli Stati Uniti alle elezioni di medio termine del 2 novembre è stato tutto un susseguirsi di colpi di scena, di vittorie considerate fuori dagli schemi e soprattutto di successi politici dell’ala più rigida e intransigente della Destra americana. Una vittoria insomma, quella della O’Donnell, se non proprio annunciata, sicuramente in linea con quanto sta accadendo nel Paese nordamericano. E quel che sta accadendo nel Paese nordamericano ora è che una concatenazione di congiunture particolari sta generando novità importanti.

Le congiunture sono passeggere, le novità no. Definire certe situazioni “congiunture” non significa infatti ritenerle di secondo piano, bensì valutarle correttamente per ciò che sono: occasioni storiche che favoriscono l’insorgenza di questioni di fondo e di quadro, persino di principio ma con ricadute decisive su realtà di fatto, assai maggiori. La crisi finanziaria globale; lo stato d’inquietudine sociale che pervade il mondo occidentale relativamente a temi come il confronto tra le civiltà; la situazione demografica o il problema energetico-ambientale; la psicologia dell’assedio che specialmente in alcuni quarti degli Stati Uniti pervade molti cittadini rispetto al mondo islamista; la minaccia costante del terrorismo internazionale; lo stato di guerra in cui comunque il mondo vive da almeno 9 anni; certe tematiche fondamentali di natura etica che se non altro gli otto anni di presidenza di George W. Bush jr. (2000-2008) hanno avuto la capacità di rimettere al centro del dibattito (aborto, sperimentazione sugli embrioni, statuto degli embrioni, inizio e fine vita, eutanasia, clonazione, omosessualità e persino evoluzione, su tutto imperando il ruolo minimo, nella prospettiva bushana, o addirittura nullo che lo Stato deve avere per esempio nel finanziarne la diffusione), e così per gli Stati Uniti ma non solo, quantomeno a livello politico (un livello da cui molti ritengono esse debbano stare e siano attualmente fuori, ma non così negli Stati Uniti); e in ultimo la presidenza di Barack Hussein Obama e l’intronizzazione alla Casa Bianca della suo personalissimo modo di condurre la politica frammisto d’inesperienza e d’ideologia (l’Amministrazione Obama è una contingenza) sono stati nella società americana il catalizzatore di un sentimento di rivolta profondo ma affatto viscerale, ancorché talvolta espresso istintivamente, che segna un punto fermo nella storia politico-culturale del Paese. Questo è il vero nodo che occorre tenere presente quando si vedono trionfare le Christine O’Donnell nel Delaware.

Non si ripeterà mai abbastanza, infatti, che quanto sta avvenendo ora negli Stati Uniti in vista delle elezioni di medio termine (le quali sono solo un’altra, e nemmeno delle maggiori, contingenze catalizzatrici di cui sopra) è l’esito della lunga marcia intrapresa a metà del secolo scorso da un nucleo sparuto d’intellettuali che ebbero l’ardire di definirsi conservatori mentre il mondo, e i vicini di casa, sputavano loro addosso, e che la loro “rivoluzione” in quell’ora storica fu semplicemente la riappropriazione di una identità culturale profonda troppo a lungo e colpevolmente dismessa dalla nazione stessa.

Quel call to action – tutto intellettuale, per carità, ma non per questo inefficace – fu del resto la presa di posizione decisa di un mondo di pensiero forte che, reagendo con coscienza alle mille sirene dell’utopia, del progressismo regressista, del “mito rivoluzionario” e del relativismo, “incominciava” a mettere in seria discussione quel mondo moderno che ormai da allora è bell’e che defunto, mettendo di nuovo a disposizione, oggi, praterie sconfinate tutte ancora da scoprire, colonizzare, abitare. Non il sogno struggente di un passato che non può per forza di cose tornare, tutt’altro: ma la nostalgia di un futuro ancora tutto da costruire, se solo ve n’è la possibilità concreta. Non una sentimento “antimoderno” per sport, ma la testimonianza attiva di un modo diverso di abitare e di edificare l’evo moderno. Le Christine O’Donnell e il loro Delaware altrimenti non si spiegherebbero.

Camminarono, quegl’intellettuali conservatori della prima ora che reclamavano un passato tutto futuribile, soli nel deserto fino a che non individuarono anche in politica una chance. Lo strumento furono uomini e volti precisi dentro il Partito Repubblicano, un partito che i conservatori seppero non poco condizionare dall’interno e dall’esterno, tanto da trasformarne molto e sempre più la proposta politica; e questo è durato tra alti e bassi, con successi innegabili e tra sconfitte pure cocenti, fino a oggi.

Oggi il momento storico forse non è diverso da molti altri della storia recente di quel Paese e soprattutto della storia peculiare di quel tentativo di costruire un avvenire diverso, una volta tanto davvero migliore oltre ogni retorica bolsa, ma certamente esso è straordinariamente propizio in forza di quelle contingenze che, tutte assieme, spingono al punto di non ritorno, e così, nel suo grande insieme, quella storia compie un passo in avanti, spicca un grande balzo in là.

Oggi il conservatorismo nato ieri da alcuni pionieri nel deserto, cresciuto poi in un movimento enorme, quindi capace di pungolare la scena politica, bravo nel “costringere” candidati ed eletti a determinate prese di posizione, entra nell’arena in prima persona. Abbandona ogni razzo vettore che lo ha portato sino a qui per pilotare da sé. Non è più a rimorchio, ma siede alla guida. Insomma, ribalta i ruoli. Eccola la chiave di volta per capire il “caso Christine O’Donnell”. Oggi chi fin qui ha confuso Partito Repubblicano e conservatorismo, dovrà cominciare a fare i conti con un soggetto nuovo, almeno nel proscenio politico-elettorale, un soggetto nuovo che continuerà a usare i traini quando e se gli serviranno, ma che sempre più frequentemente deciderà da solo la strada da imboccare.

I “Tea Party”, per la maggior parte inconsapevolmente, e il fatto non è spregevole, stanno modificando così la scena politica statunitense. Domani potrebbero, perché no, umano troppo umano, deludere anch’essi; ma, comunque andrà, la storia politico-culturale di quel Paese non sarà più la stessa. Il precedente da loro posto sarà infatti vincolante. I “Tea Party” sono una “rivolta fiscale”, certo; ma ciò significa solo che il modo di ribellarsi a una modernità fallita scelto ora da un mondo enorme è – contingente come la cause che lo scatenano – quello fiscale. Protestare contro le tasse ingiuste è la cornice più appropriata per fare avanzare sul campo di battaglia truppe leggere e pesanti nel modo più adeguato all’ora presente, ma la guerra è più vasta e profonda.

Assistiamo spesso agli esercizi vuoti di certi commentatori. I “Tea Party” sono solo rivolta antifiscale e non c’entrano con la Destra valoriale, dicono. Quella di oggi non è la Destra “evangelicale” dell’“era Bush jr.”, insistono. Chissà se si può parlare ancora di “Right Nation”, scrivono con molto mestiere e pressoché nessuno strumento tassonomico adeguato a rispondere sensatamente. Quel che non si riesce – non si vuole – comprendere è la natura enorme di un fenomeno che oggi si esprime in un determinato modo, ma che sfida l’andazzo comune su tutti e ciascuno i piani decisivi della politica.

Gli esercizi vuoti dei commentatori, infatti, non riescono ancora a spiegare come il conservatorismo che pareva defunto è tornato più forte e popolare di prima in men che non si potesse dire. Non spiegano come per ogni cittadino antitasse ci sia un difensore della morale naturale. Non fanno la prova del nove immaginando di recarsi a un “Tea Party” qualsiasi, da loro definito “solo” antifiscale, provando a sbandierare un vessillo filoabortista e vedere l’effetto che fa. Non capiscono che esigere una fiscalità più corretta è il modo storico e concreto con cui, da sempre, la società americana fa da sé, proseguendo nel tempo la storia di un Paese assolutamente laico e quindi più religioso di qualsiasi altro in Occidente. E non spiegano quindi i Newt Gingrich che parlando di Vangelo e politica agli angoli della strade, le Sarah Palin che parlando di Dio e Costituzione ai crocicchi, le Nikki Haley “extracomunitarie” innamorate dell’Occidente più degli autoctoni al canto di “Dio, paria, famiglia”, i Rand Paul medici, libertari e antiabortisti figli di altri medici, libertari e antiabortisti (la famiglia e la tradizione non sono acqua), i Glenn Beck dalla retorica tranchant, i molti candidati di colore che rifiutano la retorica del politically correct al grido di “fede e patria”, le schiere di coloro che ormai apertamente, più apertamente che mai, dicono che “Repubblicano” non basta e occorre dirsi “Repubblicano conservatore” ché la differenza è grande e alla bisogna pure solo “conservatore” (i Repubblicani vadano per la loro strada, se non si adeguano), infine le varie Christine O’Donnell.

In Delaware Christine O’Donnell ha sbaragliato i nomi grossi del Partito Repubblicano conquistando la pole position per un seggio indispensabile a ottenere la maggioranza Repubblicana al Senato il due novembre prossimo venturo. Cioè la gente che nel Delaware vota Repubblicano, cioè ancora la gente che lì vuole mandare a casa gli Obama battendo i Democratici alle elezioni d’inizio novembre, sceglie personaggi così. L’elezione per quel seggio è speciale. Nel 2008 lo vinse il Democratico Joseph Robinette “Joe” Biden sconfiggendo proprio la O’Donnell. Poi Biden venne eletto alla vicepresidenza federale è così, a norma di Costituzione federale, quel suo seggio senatoriale nel Delaware venne assegnato ad altri e ora torna in pallio.

Christine O’Donnell è giovane (classe 1969), bella e reazionaria. Nel 1996 ha fondato The S.A.L.T., la Savior’s Alliance for Lifting the Truth, ovvero una organizzazione che fa lobby al Congresso in favore dei “princìpi non negoziabili”. È stata una delle portavoci delle Concerned Women for America, una delle organizzazioni conservatrice ed evangelicali più intransigenti degli Stati Uniti, fondata nel 1979 e diretta a Washington da Beverly LaHaye, moglie di Timothy F. “Tim” LaHaye, cofondatore della Christian Coalition of America. Vale a dire ambienti piuttosto anticattolici, e de facto la O’Donnell per un po’ si è “sentita” evangelicale, ma ciò non le ha impedito e non le impedisce di essere cattolica e cattolicissima. Famosa per l’impegno pro-life, Christine del Delaware è una irriducibile: contraria all’aborto sempre, anche nei casi di stupro o d’incesto, pensa che guardare un film pornografico equivalga a tradire il coniuge; pensa che Dio abbia creato tutto in sette biblici giorni e che l’evoluzione sia una burla, anzi una fede che dunque non va insegnata nelle scuole pubbliche giacché viola il precetto costituzionale di separazione tra Stato e Chiese; e pensa l’Aids si batta certamente con l’astinenza sessuale ma non solo. Lo si fa, pensa, anche smettendo di masturbarsi, e per dirlo, nel 1996, è andato nella tana del lupo giovanilista (gestita da gente di mezza età, come da noi accade nei centri sociali della Sinistra alternativa), il programma Sex In The 90’s di MTV. Ma ve la immaginate nel nostro milieu di “tremate le streghe sono tornate” una che entra in politica con un programma contro la masturbazione e che soprattutto vince? Christine lavorò pure per il superbo think tank educativo Intercollegiate Studies Institute di Wilmington, in Delaware., e questo è un buon segno. Cattivo segno sono alcune questioni imbarazzanti che oscurano (sembra) il suo passato, rette universitarie non pagate, cause legali strane e un pessimo litigio proprio con l’ISI. Ma quand’anche il bicchiere fosse mezzo vuoto, pare che per i suoi numerosissimi elettori democratici conti assi di più guardare al coté mezzo pieno. Basta dare la colpa di tutto ai bifolchi delle farm della provincia del Delaware?



Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]

http://www.loccidentale.it/articolo/la+vittoria+della+o%E2%80%99donnell+afferma+il+nuovo+modello+di+%E2%80%9Crepubblicano+conservatore%E2%80%9D.0095801

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