giovedì 30 settembre 2010

Ecco come il "Tea Party" cambierà il sistema bipartitico americano

Il quadro americano è chiaro. Il Partito Repubblicano è in grande rimonta contro i Democratici, i conservatori dei “Tea Party” sono in ascesa vorticosa e le due cose non coincidono affatto. I “Tea Party” non sono d'accordo nemmeno con il personale politico che il movimento ha comunque apertamente ed entusiasticamente sostenuto durante le primarie in vista delle elezioni di medio termine, personale politico diverso se non addirittura indipendente che solo strumentalmente continua a utilizzare, ora, il nome del Partito Repubblicano.

I “Tea Party” non hanno un leader perché ne hanno molti: tutti coloro, anche noti e famosi, che entrano nel movimento non nutrono alcuna illusione di poterlo egemonizzare appiattendolo monoliticamente su un nome, un'idea, uno slogan. Raccolgono, i “Tea Party”, testimonial, amici, compagni di strada che però restano sempre e solo tali: il movimento, infatti, è il popolo, e per cercare di capire chi lo comanda, chi lo organizza o cosa esso pensa e vuole occorre fare la fatica di girare per i ranch, andare in provincia (la stragrande maggioranza del territorio americano), frequentare bar e pub, chiese e partite di baseball (soprattutto quelle dei ragazzini dove i genitori si assiepano su spalti poveri e legnosi), andare al cinema e mollare le sit-com che invece noi acquistiamo, leggere la letteratura di centinaia e centinaia di advocacy group sparpagliati in un Paese enorme, slegati e amici, cugini e solitari, il più delle volte raccolti dietro nomi oscuri, ignoti, sconosciuti. Quello cioè che non fanno i giornalisti che ne scrivono.

È vero che i “Tea Party” non sono religiosi e non è vero che sono una rivolta fiscale perché il movimento è, per “amerikano” che possa sembrare alle nostre orecchie, entrambe le cose assieme. Una bestia rara, insomma, in cui il rispetto dei princìpi non negoziabili viene esigito da quei signori che stanno a Washington (ai quali il potere è volontariamente e parzialmente delegato dal popolo) per ragioni di partita IVA e viceversa, una galassia omogenea ma non omologa dove abitano sia quelli che lo Stato si abbatte non si cambia sia quelli che le tasse sono belle basta siano poche poche, tanto quelli che l’aborto è omicidio quanto quelli che sfumano di più ma a voce bassa sorbendo oggi un Earl Grey di rivolta in tale fitta compagnia. Insomma, difficile serrarlo nei ranghi questo cavallo brado delle praterie che ha per nome “Tea Party”, fatto di fides et ratio, sentimento ed estetica, cuore e passione, eredità e ragioni. Ci vorrebbe un dettagliato corso di storia e di spirito americano per cominciare a distinguerne i contorni e apprezzarne i contenuti. Tutta roba, appunto, per la quale i cronisti non han tempo.

Il Partito Repubblicano è in grande rimonta contro i Democratici perché i Democratici sono colpevoli di bancarotta politica, i conservatori dei “Tea Party” stanno crescendo impressionantemente perché i Repubblicani sono più volte che no correi di bancarotta morale e culturale, e le due cose si avvolgono l’una dentro l’altra ottenendo alla fine un risultato chiaro e netto: i liberal dell’uno e dell’altro partito perdono terreno ogni giorno che passa mettendo a repentaglio ogni minuto di più la maggioranza che detengono nei palazzi del potere americano.

I “Tea Party” sono del resto pure in continua trasformazione. Può darsi che, come è stato scritto, il movimento sia nato esclusivamente all’insegna della sola rivolta fiscale, ma continuare a ripetere oggi questa formuletta semplicistica è temerario. Può darsi che lo squillo della rivolta sia stato a suo tempo il fattore tasse, ma che l’intera questione si sia rapidamente fatta più complessa è innegabile. Ci sta anche che alcune delle analisi diffuse comunque piuttosto tempestivamente in questi mesi in forma di libro continuino a proiettare sull’intero movimento la luce percepita dagli osservatori (e magari dagli stessi protagonisti) nelle sue prime ore di vita (non falsa, certo, ma sempre più falsante man mano che il tempo passa e la percezione invece di raffinarsi si sclerotizza). A pubblicare i libri, infatti, ci vuole sempre del tempo e cercare di radiografare attraverso di essi un fenomeno come i “Tea Party”, che ogni giorno muovono un passo significativo oltre, paga inevitabilmente il pegno del ritardo.

Saranno insomma (forse) state “solo” di natura fiscale le prime proteste del movimento ma oggi è oramai lampante una cosa: i “Tea Party” ricordano, sull’altro versante dello spettro politico-culturale, ci mancherebbe, la nota boutade sui Verdi i quali quando sono maturi diventano rossi; la difesa delle libertà autentiche ingaggiata dai “Tea Party” è maturata fino a scoprirsi graniticamente “Dio, patria, famiglia”. A lesson in American history. E per trasversale che sia nato, il movimento dei “Tea Party” è ora innegabilmente una potente offensiva conservatrice. Fa quasi venir da pensare che il popolo vero sia la Destra, che l’unico progressismo possibile sia la Destra, che l’unico ecumenismo bipartisan sostenibile sia solo la Destra, nel mezzo accorgendosene anche quelli che in origine venivano da altri cantoni dell’ecumene civile. Right is right, left is wrong.

E mentre il terremoto dei “Tea Party” non cessa di scuotere la scena politica statunitense (e di disturbare i sonni politologici dei nostri commentatori), il suo stato di salubrità si conferma alle stelle, visto che il fuoco di fila scatenato contro di esso dal potere massmediatico (se il mondo parla troppo bene di te gatta ci cova, diceva sant’Ignazio di Loyola [1491-1556]) ha dovuto ricorrere persino alla demonizzazione. Letteralmente. Christine O’Donnell, infatti, la regina delle primarie Repubblicane del Delaware che il 14 settembre ha trionfato con un tetragono programma conservatore, viene ora accusata di essere… una strega…

Restiamo ancora su di lei. Difficile che ce la possa fare a sconfiggere l’avversario Democratico Christopher Andrew “Chris” Coons, certo, ma vediamo perché. Il Delaware è uno Stato della Nuova Inghilterra in larga parte Democratico e per il resto solidamente legato a un Partito Repubblicano a sua volta definito da forti connessioni con l’“impero del denaro”, ovvero la storica famiglia Du Pont, di origini francesi, che nel Delaware è una vera e propria istituzione, legata ad altri potentati quali la famiglia Roosevelt e la famiglia Vanderbilt. Un mondo, insomma, dove contano "certi valori"…

Fatta la somma, si ottiene un tondo risultato liberal. La O’Donnell ha già fatto cappotto sbaragliando il nove volte deputato Repubblicano nonché ex governatore dello Stato, Michael “Mike” Newbold Castle, che era un gran bel pezzo di liberal: cattolico, pro aborto e pro finanziamento federale alla ricerca sulle cellule staminali degli embrioni umani. Insomma, la quintessenza di quelli che negli Stati Uniti definiscono con l'acronimo RINO, cioè “Republican In Name Only”, un Repubblicano solo di nome, non di sostanza, secondo l’idea che i Repubblicani veri siano sempre e soli quelli conservatori e quelli progressisti invece no (anche se le tradizioni dei partiti statunitensi per genoma politico tollerano al proprio interno anime diverse e contraddittorie). Del resto, in aprile, l’organizzazione “RemoveRINOs”, che bolla i propri nemici identificandoli con le carte più alte di un mazzo da poker come si fa con i terroristi internazionali e che fra i RINO annovera pure John McCain, ha assegnato a Castle la palma d’onore dell’asso di picche.

Andare però più in là di così sarà per la O’Donnell impossibile, miracoli a parte. Avrebbe dunque ragione chi sostiene che una candidatura tanto estrema come la sua sotterrerà i Repubblicani? Ebbene, ancora una volta no. Chi verrà sotterrato saranno infatti solo i RINOs e l’establishment miliardario di partito che li sostiene contro il volere della gente. L’esito delle primarie del Delaware dice infatti a chiare lettere due cose precise. La prima è che una parte cospicua della popolazione di quello Stato non è liberal: non vuole né i Democratici né i RINO. La seconda è che quella gente numerosa non è disposta a sostenere oltre la pantomima su cui l’establishment Repubblicano si è sostenuto sin ora, gente che per fugare ogni dubbio ha spedito al partito un siluro di nome Christine che lo ha affondato. Il 2 novembre infatti in Delaware o la Destra di popolo sbancherà il tavolo battendo anche i liberal Democratici (improbabile) rappresentati da Coons oppure porterà a casa il lusinghiero e fondamentale risultato di avere sconfitto i liberal Repubblicani rappresentati da Castle. Comunque vada è già un successo.

Perché si può disquisire fino alle calende greche di Christine O’Donnell e di ciò che pensa, delle sue “intemperanze” e del suo “stile”, ma un fatto è incontrovertibile: 30mila persone circa su una popolazione totale di quasi 865mila abitanti (di cui molti meno sono gli aventi per qualsiasi ragione diritto al voto, meno ancora i votanti registrati, meno ancora i votanti alle primarie, meno ancora i votanti tout cout, com’è storia e prassi negli USA) hanno scelto Christine O’Donnell.

La O’Donnell è stata l’ottavo personaggio politico forte dell’appoggio esplicito del movimento dei “Tea Party” ad avere sbaragliato nelle primarie di quest’anno altrettanti candidati Repubblicani cari all’establishment di partito. Chi stigmatizza e combatte i RINOs crede che una buona parte del Partito Repubblicano sia in buonafede e quindi salvabile, ma oggi i “Tea Party” dicono che non è vero, anzi lo dimostrano. Non perché qualcuno dei “buoni” si candida tra i Repubblicani, ma perché qualcuno che ottiene l’appoggio del movimento in ragione di ciò che già fa quotidianamente surclassa i falsari.

L’ago della bilancia ora è questo, come osserva il fortunato libro Mad as Hell: How the Tea Party Movement is Fundamentally Remaking Our Two-Party System di Scott W. Rasmussen e Douglas Schoen, pubblicato a New York da HarperCollins (la stessa famosa etichetta che pubblica Sarah Palin) il giorno stesso della vittoria della O’Donnell in Delaware. I due autori sono il primo un mago dei sondaggi, il secondo una analista politico di spicco a Fox News. A dar retta a loro siamo solo all’inizio.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk


http://www.loccidentale.it/articolo/ecco+come+i+%22tea+party%22+sta+cambiando+il+sistema+bipartitico+americano.0096444

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