martedì 19 ottobre 2010

Il Tea Party è solo l'ultima puntata della Rivoluzione Liberale

Intervista a Marco Respinti di Alma Pantaleo

Tutto ha avuto inizio il 19 febbraio 2009. Alla Borsa di Chicago, il cronista della Cnbc Rick Santelli aveva accusato la Casa Bianca di favorire i comportamenti rischiosi dei banchieri spericolati, dei manager fallimentari e dei cittadini che compravano case che non si potevano permettere. Il suo sfogo in diretta televisiva si concluse con l'idea di fondare un “Chicago Tea Party”. Da allora il movimento, che si ispira all’atto di protesta avvenuto nel 1773 da parte dei coloni americani contro il governo britannico, è cresciuto e si appresta ad affermare la propria autonomia – e chissà, a giocare un ruolo decisivo – nelle mid term del 2 novembre prossimo. Proprio ieri dal Nevada sono partiti gli autobus del “partito del tè” per una cavalcata elettorale da costa a costa a caccia di voti. Abbiamo fatto quattro chiacchiere sull’evoluzione, sulle prospettive future e sulle contraddizioni interne al movimento con Marco Respinti, presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk, che ha di recente pubblicato il libro “L’ora dei ‘Tea Party’. Diario di una rivolta americana”, edito da Solfanelli.

Marco, come nasce l’idea del suo libro?

È una raccolta di articoli di cronaca – alcuni tratti dalla rubrica che curo su l’Occidentale – che ho scritto nella prima parte del 2010 e aggiornato fino al mese di luglio, che descrivono quello che man mano sta accadendo attorno ai Tea Party. Il libro nasce dall’esigenza di descrivere uno spaccato più aderente al vero di questa realtà, visto che tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 molta della cronaca che è stata fatta in Italia sul fenomeno risulta lacunosa e spesso molto superficiale.

Perché avete scelto come limite temporale della raccolta il mese di luglio?

Il motivo per il quale ci siamo fermati al mese di luglio è che volevamo dare un quadro del fenomeno prima delle elezioni mid term di novembre. Una serie di altri articoli verrà poi pubblicata in un secondo volumetto subito dopo la fase elettorale e compirà anche una valutazione di quello che sarà stato il responso delle urne. Questo libro è, dunque, una sorta di prima puntata.

Oltre agli articoli sono presenti documenti di altro tipo?

Il libretto ha due appendici, che sono due saggi, scritti dopo le elezioni mid term del 2006 e quelle presidenziali del 2008, che offrono un’analisi, ad oggi non smentibile, di ciò che è successo in quelle circostanze. Le ho inserite perché secondo me sono il retroscena necessario per capire come si è arrivati a un fenomeno della portata del Tea Party che sta condizionando fortemente le prossime elezioni.

Che peso avranno effettivamente i Tea Party nelle mid term del 2 novembre?

Enorme. È prevedibile che molti candidati sostenuti dai Tea Party avranno un grosso successo, non tutti ce la faranno ma in ogni caso, queste elezioni saranno condizionanti per il Partito Repubblicano stesso non potrà più ignorare questa forza di popolo e di voti enorme. Tutto dipenderà da come i Tea Party sapranno gestire quella che secondo me sarà una vittoria, al di là della sconfitta di alcuni loro candidati.

Come giustifica questa vittoria del movimento?

Anzitutto il Tea Party non è un partito nel senso classico del termine, è una forza di base, autenticamente spontanea e popolare che noi, abituati a una logica più statalista, facciamo fatica a capire. Rappresentano solo l’ultima stagione del movimento conservatore, è un network che nasce come alternativa ai due partiti maggiori che non capiscono più le esigenze della gente. Lo fa giocando su due piani: dall’interno del Partito Repubblicano, condizionando il più possibile un numero sempre maggiore di candidati fino al punto di svuotarlo e scalarlo; e all’esterno dei due partiti maggiori, in particolare dal Partito Repubblicano, perché una grossa fetta del mondo dei Tea Party non tollera nemmeno più questa scalata all’interno del partito e propone una terza via. C’è da dire che a tutt’oggi non si tratta di un partito organizzato, forse non lo diventerà mai. Alcuni degli esponenti del Tea Party dicono che è meglio sia così perché finirebbe per cadere nella politica cinica e strumentale.

In un articolo di Rolling Stone il giornalista Matt Taibbi attacca il Tea Party facendo emergere delle contraddizioni interne al partito stesso, una fra tutte quella fiscale: “sono quelli che si lanciano contro il governo intrusivo ma sono i primi a beneficiare di stipendi, servizi sanitari e pensioni”…

Premetto che il fatto che ci siano stati sin da subito attacchi bipartisan al movimento sta a significare che i Tea Party hanno toccato corde sensibili e stanno avendo un enorme successo. Proprio in conseguenza di questo fatto si cerca di metterli in un angolo. Detto questo è difficilissimo dire cosa fa il Tea Party e come la pensa. È un movimento variegato, enorme, spontaneo, senza capi e non ha un’ideologia prestabilita. Quindi c’è chi vuole una dimensione dello Stato più ridotto e chi non lo vuole affatto, e quindi c’è sicuramente qualcuno più incline ad accogliere gli aiuti statali, ma bisogna fare nomi e cifre.

Altra questione sollevata dal giornalista di Rolling Stone è quella del razzismo e dell’immigrazione…

È facilissimo giocare questa carta molto squalificante. Se dò del razzista a qualcuno lo sotterro senza possibilità di replica. È una vecchia storia che risale alla candidatura di Obama, dove qualsiasi obiezione alle sue scelte politiche ed economiche veniva presa come una posizione da vecchio conservatore di destra, bianco e razzista. Come sempre nei movimenti di massa incontrollati, lo stupido capita ma questo non significa che si può cristallizzare il Tea Party come un movimento razzista, anche perché all’interno del partito stesso c’è una fetta considerevole di minoranze etniche. La questione dell’immigrazione è un'altra cosa: quella clandestina va combattuta, quella legale va regolamentata data la quantità di stranieri presenti in America, basti pensare alla situazione in Arizona.

Sulla questione razziale Taibbi afferma che gli esponenti del Tea Party sono convinti che i bianchi “siano una specie di minoranza oppressa nell’era di Obama”…

È facile fare giornalismo così. L’autore dovrebbe argomentare e giustificare questa frase citando fonti autorevoli. È innegabile che esista un fenomeno, quello del razzismo al contrario, dal tempo dei diritti civili ad oggi che ha ribaltato le sorti per cui tu non puoi mai criticare un nero non per motivi razziali, ma per motivi culturali e politici sennò passi per razzista. Ciò finisce per inibire chi nero non è.

Taibbi accusa il movimento di aver perso i suoi candidati preferiti, da Rand Paul a Sarah Palin che secondo lui sono stati del tutto integrati nel partito Repubblicano, contro cui si dovrebbe indirizzare la rabbia del movimento…

Può darsi che un fenomeno di questo tipo possa accadere, il potere interessa a tutti in fondo. Però questo lo dobbiamo vedere a conti fatti dopo il 2 novembre, quando si vedrà chi ce la fa e chi no alle elezioni e come si comporterà nei confronti dell’establishment del partito. Ammesso e non concesso che questi personaggi siano stati realmente integrati e corteggiati dal Partito Repubblicano, anche questo è segno di vittoria del mondo dei Tea Party, non un tradimento, perché cercare di riportare a sé quei candidati, come Sarah Palin, a cui i Repubblicani avevano voltato le spalle, significa che questi con il movimento che hanno dietro sono davvero indispensabili.

C'è stato qualche precedente storico?

Sarebbe la ripetizione di quello che è successo nel 1964 con Berry Goldwater, famoso candidato di destra, sconfitto alle presidenziali dello stesso anno, odiato dall’establishment del Partito Repubblicano che scelse di appoggiarsi al movimento conservatore che impresse al Partito Repubblicano una svolta interna che lo ha reso quello che è oggi, orientato più a destra di quello Democratico. Fu una vittoria del movimento perché riuscì a portare la politica sulle proprie esigenze e non a farsi strumentalizzare. Se succedesse ancora oggi con il Tea Party sarebbe un ulteriore vittoria.

Come vede la possibilità che, come ha sottolineato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, si abbia una piena sovrapponibilità del Tea Party al “microclima” italiano?

Il Tea Party in Italia esiste, io ne sono – dicono – un consigliere culturale. Non è ancora ai livelli di quello americano ma richiama al tema centrale della pressione fiscale, che è un problema anche nostro. Riprende lo stesso nome perché è fortemente evocativo e popolare. Ma quello che ha lanciato l’altro giorno Berlusconi e che è comparso sull’articolo di Repubblica è un’altra cosa. Lui ha detto che ci vorrebbe nel nostro Paese un qualcosa di simile a ciò che c’è negli Stati Uniti perché la rivoluzione liberale inaugurata nel 1994 ha esaurito la sua spinta propulsiva e necessiterebbe di una forza nuova che rinnovi e porti entusiasmo in un partito che ha avuto vicissitudini molto amare negli ultimi periodi, a causa ad esempio della rottura avvenuta per mano dei finiani. Berlusconi non sta cercando di arruolare il movimento Tea Party in Italia ma sta dicendo che ci sarebbe bisogno di una spinta movimentista, popolare, al di fuori del partito che sia capace di condizionare la politica e dare linfa nuova al pensiero già esistente. Mi sembra una cosa molto positiva.

http://www.loccidentale.it/articolo/tea+party.0097354

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