venerdì 29 ottobre 2010

Qui a Washington ho capito una cosa: il Tea Party è una vera rivoluzione

Washington, D.C. – Gli Stati Uniti d’America, quelli veri, non abitano qui, non certo nella capitale federale. Sì, Washington è una cittadina per diversi aspetti gradevole, assai meno tentacolare di una New York, ma è pur sempre il collo dell’imbuto dove si concentrano le strutture del potere federale che hanno alienato milioni e milioni di americani. Quei milioni che popolano un continente intero, lontani dalle dinamiche ciniche della “stanza dei bottoni”, distanti dalle logiche logoranti di un mondo politico sempre più autoreferenziale.

Rincaso insomma un po’ perplesso nel sorprendermi a passeggiare per le vie dei quartieri residenziali di Washington con due pacchi di linguine Barilla sotto il braccio e un rigoglioso cespo di prezzemolo nella sportina. Stasera abbiamo ospiti importanti per un dinner party politico-culturale e all’ultimo momento la dispensa ci si è rivoltata contro. Ecco allora che l’edificio di mattoni rossi in stile vittoriano dove ancora ha sede uno dei quattro mercati di cui un tempo era ricca la capitale federale degli Stati Uniti, l’Eastern Market che sorge al civico 225 della 7a strada in direzione nordest, viene in salutare soccorso. La mia perplessità, oggi, è dovuta al fatto che mai avrei pensato di potermi trovare un dì a far spesa fra la bancarella del pizzicagnolo e il banco del pesce nel Distretto di Columbia dove sono di rigore giacca e cravatta sempre, dove time is money, dove tutto è lobby. Sono però contento. Anche Washington getta finalmente la maschera del grigio burocratismo e si scopre umana, in questo tardo meriggio di sole calante sulle cime di aceri vestiti di foglie di un bel giallo caldo mentre la fragranza di una arietta crispy viene dolcemente sostituendo la temperatura mite, roba da pranzare ancora in giardino in maniche di camicia, che ci ha avvolti con simpatia per tutta la giornata. Rinconciliante. Washington non sarà certo la Smalltown America dove il cuore della gente pulsa davvero, ma pare che non tutto sia perduto.

La domenica, alla Messa delle 9,00 celebrata in rito tridentino nella parrocchia di St. Mary, Mother of God, a un passo da Union Station, vedi inginocchiato tra i banchi Thomas Bethell (e signora, Donna), il talentuoso saggista di mille e un best-seller (in italiano vedi Le balle di Newton. Tutta la verità sulle bugie della scienza, a cura di Guglielmo Piombini, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2007, e nel rinfresco seguente scambi quattro chiacchiere, fra un donut e l’altro, con il fuoriclasse Patrick J. Buchanan, pensa te che compirà 72 anni proprio il giorno delle elezioni di medio termine, l’abito scuro non gli fa una grinza, il messalino sotto braccio gli dona. Il pensiero va subito a Joseph Sobran. Scrittore di gran talento, giornalista di molti meriti, campione di quella Old Right più intransigente che da sempre qui mischia le sorti con il cattolicesimo più integrale, uomo di polemica vera, antineoconservatore fervido, talvolte sopra le righe, ma-chi-non-lo-è?, ebbe la ventura di definirsi “teo-anarchico”. Il 30 settembre se n’è andato a 64 anni, lasciando una voragine. Mancherai a tutti, Joe.

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Sì, Washington non è la Heartland America, la terra dove batte il cuore del popolo: basta del resto fare un saltino fuori porta, per esempio a Vienna o a McLean in Virginia, a tiro di underground dalla capitale, per scoprire tutto un altro mondo, distante anni-luce anche se in realtà poche miglia dai palazzi ingessati del potere altrettanto ingessato di qui. Neanche quando governano i Repubblicani, Washington è l’emblema vero del Red State, là dove dominano incontrastati i conservatori. Eppure questa città originale e al contempo strana, un attimo affascinante e quello subito dopo scostante, qualcosa di sincero da dire ce l’ha, lo conserva. Non tutto è minuetto tattico.

Fra una manciatina di giorni qui negli Stati Uniti sarà la resa dei conti. Gli americani andranno alle urne, la lunga marcia della protesta montata nel corso di due anni interminabili e rapidi contro la Casa Bianca arriverà al dunque, certamente le elezioni consegneranno al nuovo Congresso eletto un mandato forte e chiaro: Barack Hussein Obama go home!

Si sente, si vede, si percepisce. È nell’aria. Su qualche paraurti scorgo gli adesivi di ieri, “Obama 2008”: ma sono vecchi, consunti, sbiaditi. Stanno ancora lì perché non si riesce a levarli senza far danno, quel fastidioso frammisto di carta strappata e collante residuale. Un numero enorme di americani si è pentito presto di esserseli appiccicati sull’auto, in così troppa bella vista.

La Camera dei deputati, relata refero, andrà ai Repubblicani, qui ci giurano tutti. Al Senato invece la partita è durissima. Ma aperta. Molti commentatori fini che incontro a pranzo, cena, colazione e merenda sostengono che diversi seggi sono ancora sul serio aperti. Difficile spuntarla, sicuro, ma let’s cross fingers. Una cosa è certa. Gl’indecisi, numerosi, registrati dai vari sondaggi, resteranno tali anche il 2 novembre, cioè non voteranno. Amen. Al Senato i Democratici dovrebbero quasi certamente trarne vittorioso vantaggio, a meno che non li scalzino elettori nuovi, gente cioè che non ha votato in elezioni precedenti per disgusto e insoddisfazione ma che ora potrebbe invece fare la differenza a destra. Obama trionfò nel 2008 erodendo pochisimi voti a destra: liberò infatti energie prima inutilizzate a sinistra. Toccherà adesso alla Destra? Succederà ai conservatori, oggi che l’offerta politica è allettante come non mai per quei comparti del conservatorismo di popolo che fino a ora se ne sono restati a casa? Il movimento dei “Tea Party” sta infatti offrendo una chance mai vista prima a chi da tempo chiede Destra e dal Partito Repubblicano riceve invece regolarmente picche. Se vincerà la propria inveterata allergia verso le urne, basata sul disprezzo dell’idea che la politica sia fatta solo di elezioni (certo che non lo è, ma in casi come quello attuale le urne divengono ottimi strumenti di affermazione), quell’enorme popolo di non-votanti potrebbe trasformarsi in un’arma imbattibile. Impossibile prevederlo, dicono certi naviganti osservatori della politica che incontro qui a Washington e che mi pregano discrezione sui loro nomi. Tutto è davvero ancora possibile.

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Che tutto sia davvero ancora realmente possibile lo sta del resto gridando ai quattro venti da settimane lo Stato del Nevada. L’ennesima donna con la gonna schierata dalla Destra grassroots, Sharron Elaine Ott Angle, classe 1949, già deputata Repubblicana all’Assemblea (la “Camera bassa”) del Nevada dal 1999 al 2007, ha le carte in regola per battare Harry Mason Reid. E la cosa non è da poco, visto che Reid è l’attuale leader della maggioranza Democratica al Senato. Dal mese di aprile appoggiano apertamente la Angle i miltanti del “Tea Party Express”, il gruppo californiano che gira il Paese su un bus a sostegno dei canditi conservatori; il popolarissimo commentatore radiofonico Mark Reed Levin, veterano dell’Amministrazione retta da Ronald W. Reagan (1911-2004) e firma di National Review; il Club for Growth di Washington, quintessenza della rivolta fiscale conservatrice, noto per essersi inventato il “RINO Watch”, vale a dire l’osservatorio che tiene per la gola i Repubblicani traditori; Phyllis Schlafly dell’Eagle Forum, la “femminista” dell’antifemminismo storico statunitense; e Joe l’idraulico dell’Ohio, cioè Samuel Joseph Wurzelbacher, nato nel 1973, che si guadagnò la ribalta nazionale durante la campagna per le presidenziali del 2008 mettendo nell’angolo Obama e le sue inonsistenti proposte politiche a tutela delle piccole e piccolissime imprese nazionali. La Angle ha avuto per settimane un vantaggio enorme, dicevano i sondaggi, su Reid; ora Reid ha riguadagnato parecchio terreno, ma lei è ancora in testa. Se i “Tea Party” dovessero portare i conservatori a guadagnare non solo la “facile” Camera ma pure il “difficile” Senato, tutto potrebbe davvero iniziare dall’America virtuosa di provincia del Nevada.

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Perché per la sfida all’O.K. Corral del Senato le sorprese, quotidiane, davvero non mancano. Mentre le Sinistre si sono riempiono la bocca di equazioni sciocche fra “Tea Party” e razzismo, mentre i media persistono nel giocare sporco sul fatto che criticare Obama significa criticare i neri, mentre i Democratici proseguono la retorica melensa sulle “minoranze”, ecco che alla vigllia delle elezioni spunta un gruppo nuovo, Latinos por la Reforma alias Latinos for Reform. Sono ispanofoni, sono immigrati (legali), sono conservatori. Hanno sede a Madison, in Virginia. Martedì 19 ottobre hanno bucato il video con spot elettorali che nessuno si aspettava, ma che la dicono assai lunga sul clima politico attuale. Ai propri compagni di “minoranza perseguitata” urlano infatti chiaro e tondo “Non votate!”. Ci avevano promesso, dicono, “il cambiamento” e “la riforma delle leggi sull’immigrazione”, ma dopo due lunghi anni di spadroneggiamento Obama e i suoi non hanno mosso nemmeno un dito. Il presidente e i suoi Democratici ci hanno – lo dicono proprio così – traditi. E adesso pensano di tornare a chiederci i voti. Nisba. Se continueremo a votarli come se nulla fosse, continueranno a prenderci per il naso. Astenetevi, dicono. Intelligenti, glossiamo. Basta con la strumentalizzazione. Caspita. Vediamo se i Democrtaici privi degli ascari delle “minoranze” ce la fanno a battere i Repubblicani impalmati dai “Tea Party”. Il pensiero, il sogno corre ancora e sempre al Senato, oltre che alla Camera.

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Qui a Washington la percezione comune è che l’onda dei “Tea Party” sia oggi il fenomeno più colossale e significativo della vita politica statunitense degli ultimi decenni. Niente di simile – si dice – si vedeva dai tempi di quella enorme mobilitazione che, sospinta dai leader dell’allora detta New Right, portò Reagan alla Casa Bianca. Niente di analogo – si spingono addirittura più in là a dire altri – si vedeva da che il conservatorismo, dal mondo (nobilissimo) delle idee (anni 1950), scese in pianura (anni 1960), trasformandosi in un movimento enorme di giovani e veterani, intellettuali e attivisti, sigle, organizzazioni, fondazioni, ed efficacemente fu capace di condizionare a sé, durevolmente, parte grande della politica nazionale, anzi di spostare persino l’orientamento interno di un intero partito, quello Repubblicano, attorno alla figura catalizzatrice del senatore dell’Arizona Barry M. Goldwater (1909-1998). Sono contento. La pensavo così, l’ho scritto, l’ho ribadito, ma il sospetto che si trattasse della percezione viziata di un osservatore lontano ed esterno, maturata solo su studio e letture, è sempre stato presente. Qui a Washington invece trovo conferma viva, autorevole. La pensano così i conservatori, dai veterani della politica agl’intellettuali, dai giovani attivisti ai businessmen.

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In questa capitale particolare, che assieme è centro e provincia, la bruttezza oggettiva di certi edifici viene consolata dalla compostezza di quella di altri, affettamente neoclassici, colonne greche a sfare, frontoni, timpani, e chi più ne ha più ne metta. Nostalgia di un passato buono per il futuro. L’amore per il bello qui è diffuso tanto quanto il culto del brutto. Menomale. Almeno non impera solo il secondo. C’è gente, qui, che crede che il bello esista, ancora; che sia reale e concreto; e che sia oggettivo, insegnabile, trasmissibile. Amano per esempio il Roger Scruton di Beauty (Continuum, Londra 2010). Trovo addirittura un vecchio volpone della politica che è luterano (niente nomi, intesi) e che ama le Messe cattoliche anche per la loro rotondità liturgica, estetica; e poi un episcopaliano che la sa lunga sul mondo della crudezza politica il quale si lamenta vistosamente della protestantizazzione di certe chiese cattoliche brutte. Non pensate alla forzatura se dico che tutto questo ha anche un enorme peso, o seguito, politico. Sono un popolo davvero interessante, questi americani.

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Ovvio, c’è anche chi i “Tea Party” non li digerisce. I più accorti fra costoro fanno di necessità virtù, ed è comunque una bella cosa, sia per codesti critici dei “Tea Party” sia per i “Tea Party” stessi. Che certa gente si trovi impossibiltata a fare spallucce, e che se non per amore almeno per startegica forza scenda a compressi con il movimento è cosa buona e giusta. Confrontarsi con questa realtà critica fa bene sia agli uni sia agli altri, sia a chi la critica la muove, sia a chi ne è oggetto.

Poi ci sono anche degli altri, che con i “Tea Party” ci si scornano e che non si piegano al compromesso strategico. Ciò che temono i critici da destra dei “Tea Party” è il populismo. Hanno ragione da vendere. Il populismo non è mai una bella cosa. Eppure continuo, e le testimonianze mi confortano a legione, a ritenere i “Tea Party” un fenomeno popolare e non populista. Scandalizza, e mica è un male, certa retorica del movimento contro le “élite di potere” e contro la “ruling class”. Dicono i critici da destra dei “Tea Party” che la loro è retorica bolsa: anche il loro personale, già oggi e a maggior ragione dopo le elezioni, è infatti una “ruling class”. Oppure quesi critici sferzano oltre, giudicando quella dei “Tea Party” una demagogia pericolosa: le élite sono connaturate alle società umane, se non sono buone quelle che dirigino il traffico ora le si sostituisca formandone altre. Tutto vero, verissimo. Epperò ciò che i “Tea Party” dicono chiaro è solo questo: la “ruling class” ha stufato. Non perché class, ma perché ruling. La retorica pubblica del movimento punta alle strutture di potere che hanno già dato prova di sé e brutta. Ovvio che vadano sostituite, ovvio che a sostituirle siano altre élite. Ma se questi nuovi ceti dirigenti fossero ora figli del popolo invece che di certi ambienti snob? Sarebbero un po’ più rozzi, ma per certo genuini. Immagino che la prima volta che i patrizi romani si sono trovati di fronte ai fulvi barbari arruffati del Nord sia corso loro il brivido raggelante lungo la schiena. Poi però ne è nata quella cosuccia che si chiama civiltà europea, presto occdientale. Gli Stati Uniti potrebbe trovarsi oggi a un crocevia non poi tanto dissimile. E ancora: “il popolo” non è “la massa” dei marxisti; è un insieme trasversale di persone responsabili che danno vita a intraprese, da Joe l’idraulico al più raffinato uomo di lettere. L’“élite di popolo” suonerà ossimoro, ma certo non orrore.

Sfoglio un paio di libri nuovi e me ne rendo conto subito. The Tea Party Manifesto: A Vision for an American Rebirth (WND Books, Washington 2010) di Joseph Farah è il “programma” steso dal fondatore di WorldNetDaily, il quotidiano indipendente on line che da anni offre meritoriamente l’altra faccia della medaglia delle news. Non glielo ha chiesto nessuno questo manifesto, ma che Farah lo abbia fatto da sé e abbia avuto la sapida sfrontatezza di proporlo al movimento è un gran segno. Farah è saltato sul carro dei “Tea Party” appena ne ha vista l’opportunità. Ha fatto bene. Hanno diritto di saltare sul carro del vincitore sempre e solo i falsari, o può farlo anche chi fiuta intelligentemente la riserva di potenzialità e di dirompenza di un movimento così? Pensate che l’imperatore Flavio Valerio Costantino detto il Grande (274-337) non ci abbia messo pure del calcolo politico quando scelse di dare retta alla visione del «In hoc signo vinces»?

A maggior ragione il discorso vale per il già leader della maggioranza Repubblicana alla Camera e oggi chairman di FreedomWorks di Washington (uno dei gruppi più attivi nell’organizzazione dei “Tea Party”) Richard “Dick” Armey, che con Matt Kibbe (presidente e direttore esecutivo di FreedomWorks) ha confezionato il volumetto Give Us Liberty: A Tea Party Manifesto (William Morrow, an Imprint of HarperCollins, New York 2010). Tutti quanti giù a scrivere l’abc non richiesto per il movimento, tutti che vogliono metterci sopra il cappello. Da cow-boy, questo è il bello.

Marco Respinti è presidente del Columbia Institute [www.columbiainstitute.it] e direttore del Centro Studi Russell Kirk [www.russellkirk.eu]

http://www.loccidentale.it/articolo/la+vigilia.0097815

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